Malgrado l'introduzione del consulente musicale della Fondazione Goldoni
Daniele Salvini, la scelta registica di Henning Brockhaus suscita
stupore e disorientamento, nonché borbottii di disapprovazione da parte dei poco
inclini ad accettare le novità interpretative, siano essere pertinenti o meno.
Su uno sfondo di cielo stilizzato posto a semicerchio, si anima una passeggiata
in stile anni Venti, con spiccato richiamo a quel lungomare versiliese ben
conosciuto da Puccini: in costumi d'epoca (firmati da Stefania Tosi),
coppie amoreggiano, amici s'incontrano e conversano, seduti ai tavolini o
attratti dalle bancarelle di cianfrusaglie e dal carretto dei gelati. I
movimenti, le azioni e le reazioni sono i veri protagonisti, dato che tutto si
svolge in un inaspettato silenzio, in un'atmosfera che, seppur connotata, resta
sospesa nel tempo e nello spazio. L'arrivo di un gruppo di artisti di strada
stravolge questo quadretto, dando inizio all'incantesimo: un'inedita figura di
clown (l'irresistibile Jean Méning), colui che muove i fili della
vicenda, affida ai passanti maschere e variopinti abiti dal gusto orientale. Il
buffo spiritello posiziona al centro del proscenio una vecchia valigia da cui
estrae una partitura, elemento magico da cui la fiaba ha origine.
A questo punto, la musica di Puccini inizia a risuonare: con equilibro
tra tecnica e passione, Oliver von Dohánnyi dirige l'Orchestra
Filarmonica Veneta “G. F. Malipiero”, impegnata in un complesso organico
di strumenti, tra cui il sassofono contralto, presente per la prima volta nella
storia dell'opera lirica.
Fulcro dell'azione scenica diviene l'imponente struttura posta al centro del
palco (scenografia di Ezio Toffolutti), un po' carrozzone di artisti
ambulanti, un po' tenda da circo: come in una stampa orientale, al suo interno
si palesano i misteri del sanguinario impero di Turandot. Se
all'inizio della rappresentazione i movimenti del Coro del Teatro Sociale
di Rovigo (diretto da Giorgio Mazzucato) erano naturali,
correlati ad azioni di vita quotidiana, adesso diventano ampi, a tratti
meccanici, descrittivi delle varie reazioni a ciò che accade; celati da maschere
con differenti espressioni, i volti diventano quelli di fatate bambole di
porcellana.
Sotto la guida del clown, sempre presente a commentare mimicamente gli
eventi, i personaggi principali prendono vita. Di forte impatto il soprano
Giovanna Casolla, Turandot dal timbro corposo e sicuro,
imponente e severa in gesti e sguardo. Il coreano Francesco Hong
veste i panni di Calaf: forte di una lunga esperienza nel repertorio
pucciniano e verdiano, il tenore è potente e disinvolto negli acuti; convincente
la sua interpretazione, sebbene risulti poco espressiva dal punto di vista
corporeo.
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La voce melodiosa del soprano Rachele Stanisci, abile nelle
sfumature di volume e nei vibrati, rende con canto e movimento la fragilità e lo
struggente coraggio della schiava Liù: seppur personaggio
marginale dal punto di vista narrativo, a lei è dedicata una delle pagine più
importanti di Puccini, rendendola così una delle indimenticabili eroine da lui
create. Spassosi e coinvolgenti nel loro fare clownesco, accentuato dai costumi
colorati e dal trucco, sono Ping, Pong e Pang (rispettivamente il
baritono Walter Franceschini, i tenori Max-René Cosotti e
Cristiano Olivieri), equilibrati e in perfetta sintonia canora. Unica
interpretazione sotto tono quella del basso Elia Todisco, un Timur
poco delineato, senza spessore.
Si riscontra qualche stonatura, come l'elemento scenico della sedia sdraio
all'inizio del terzo atto e la trasformazione dell'imperatore in sindaco nella
conclusione, con tanto di fascia tricolore. Non del tutto convincenti le
coreografie di Maria Cristina Madau, a tratti poco pertinenti (si pensi
alla “danza hawaiana” evocata dai tre consiglieri) ed eseguite con incertezza.
La magia finisce con la morte di Liù, con le ultime note di Puccini: la
partitura, che mai aveva abbandonato il proscenio, viene riposta; ognuno
recupera i propri abiti, il coro non partecipa all'azione, limitandosi a
osservare. Per quanto efficace, l'allestimento non riesce a rendere indolore
l'assenza del compositore: risultato di un lavoro su appunti autografi del
Maestro, il finale di Franco Alfano è lento, incerto come se il meccanismo si
fosse inceppato. A fronte della potenza innovativa del primo atto, la tensione
si smorza, le idee melodiche sono terminate, facendo risultare inevitabilmente
banale la conclusione stilistica e narrativa di questo capolavoro. La morte
della dolce Liù non costituisce solo l'epilogo della produzione pucciniana, ma
soprattutto il capitolo finale del genere melodramma, quell'inscindibile
connubio musica-teatro che trova nel Maestro lucchese l'ultimo, forse il più
grande, geniale esponente.
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