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Recensione dell'opera Guillaume Tell di Rossini dal Rof di Pesaro

William Fratti, 28/08/2013

In breve:
L'ultimo capolavoro teatrale del genio pesarese è il titolo di punta dell'edizione 2013 del Festival, eseguito nella sua forma originale, seppur con qualche piccolo taglio, di cui ci si accorge solamente dopo attento esame.


Indubbiamente la decisione di Juan Diego Florez di debuttare il temibile ruolo di Arnold è la motivazione principale che ha spinto il ROF ad allestire un titolo che, nella sua storia ultratrentennale, è stato rappresentato una sola volta. Attorno alla vocalità tenorile adatta alla parte è stato detto e scritto molto; ancora oggi si dice e si scrive molto, ma la verità, esprimendola con le parole di un celebre compositore, sta altrove: ciò che davvero importa è che un cantante si senta a suo agio con la scrittura, che la esegua bene e che faccia vivere il personaggio.

Non è possibile paragonare la voce di Florez con quelle di Nourrit o Douprez, poiché di allora si possiedono solo le cronache e non certo le registrazioni. E non è nemmeno possibile paragonarla a quella di altri interpreti di cui si ha testimonianza fonica, poiché il suo strumento – e pertanto il suono che viene prodotto – è diverso da quello di altri. Certamente la voce del tenore peruviano acquisisce maggior significato e trasmette maggiori emozioni nell'interpretare altri ruoli, ma è comunque possibile affermare che il suo Arnold, in primo atto e all'inizio del secondo, spicca per eleganza e morbidezza, cui si aggiungono una buona dizione e un eccellente fraseggio nell'eloquenza patetica. Meno interessante è l'espressività eroica dal finale secondo in poi, anche se la qualità e la tecnica di canto restano di altissimo livello. Aria e cabaletta sono rese molto bene, con estrema perizia e precisione, anche se nella cadenza “Je viens vous voir pour la dernière fois” si sente un piccolissimo segno di cedimento. Riassumendo, Juan Diego Florez è sempre il fuoriclasse che il mondo intero conosce, il canto è chiaro, limpido ed estremamente corretto, ma deve sempre fare i conti con se stesso ed è innegabile che altri ruoli gli rendano maggiore giustizia ed egli renda loro un più grande onore.

Marina Rebeka è una Mathilde molto tiepida. Il suo personaggio è poco rifinito, senza nervo e molto incolore. Tale interpretazione inefficace si sposa con un'esecuzione vocale che non va oltre la correttezza, cui si aggiungono accenti poco incisivi e acuti vicini al pigolio.

Non va meglio ad Amanda Forsythe, che pur sapendo rendere un Jemmy accattivante e dimostrando una certa musicalità nel canto spianato e nella zona centrale, emette degli acuti molto pungenti, tirati e poco puliti. Ha inoltre una proiezione molto debole, perdendosi sotto il peso corale ed orchestrale nei concertati, pur possedendo una vocalità molto acuta.

Morbida, omogenea nella voce ed espressiva quanto basta la Hedwige di Veronica Simeoni, anche se non riesce a spiccare.

Elegante nel timbro e raffinato nei piani, Celso Albelo mostra, come già notato in altre occasioni, una delle più belle voci tenorili degli ultimi anni, ma poco omogeneo e tendente all'urlo nel passo verso il canto forte nella zona acuta.

Simone Alberghini è adeguato nel ruolo di Melcthal, tanto nell'interpretazione quanto nel canto. Luca Tittoto mostra il suo colore scuro con particolare efficacia e con un personaggio ben riuscito. Meno opportuni sono invece il Walter di Simon Orfila, che si presenta con una voce che sembra quasi usurata e senescente e il Leuthold di Wojtek Gierlach, cavernoso, ma ben poco cantante. Appropriato il Rodolphe di Alessandro Luciano.

Riguardo al protagonista, Nicola Alaimo dimostra ancora una volta di essere interprete di prim'ordine e cantante di buon livello, anche se pare troppo presto per vestire i panni del mastodontico Guillaume. Questo ruolo, come tanti altri scritti per questo genere di vocalità nel repertorio rossiniano serio, necessita di uno spessore vocale, di una profondità psicologica e di una importanza drammaturgica che si possono acquisire solo con molta esperienza. Indubbiamente esistono le eccezioni che confermano la regola, ma non si tratta di questo caso. Ad ogni modo il baritono palermitano offre una prova molto positiva, soprattutto in “Sois immobile, et vers la terre”.

Anche per Michele Mariotti è forse troppo presto affrontare questa partitura immensa, ma bisogna riconoscergli il merito di avere creato un certo amalgama. La direzione è purtroppo discontinua: sublime, con interessanti colori e sfumature, in alcuni punti; un poco monotona in altri. Modesta la prova dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.

Eccellente è infine l'esibizione del Coro diretto da Andrea Faidutti: ben omogeneo, chiaramente preciso, esemplare anche in ambito recitativo.

Riguardo l'allestimento ideato da Graham Vick, purtroppo lascia molti dubbi, in quanto lo si trova simbolico in alcune parti e realistico in altre, col risultato di imprimere parecchia confusione. Le idee ci sono e se ne comprende l'esistenza, anche se talvolta ne sfugge l'intero significato, accessibile ai più solo in parte. Sicuramente le scene spoglie di Paul Brown, considerata la lunghezza del grand-opéra, l'assenza dei sovra titoli e il fatto che tale capolavoro non appartenga al grande repertorio, non aiuta buona parte del pubblico. Meglio i costumi, sempre di Brown e il progetto luci di Giuseppe Di Iorio. Validissime le coreografie di Ron Howell e bravissimi i danzatori, anche se il pubblico è decisamente indignato, prima per i movimenti apparentemente avulsi dalla scena, poi per la violenza con cui è espresso il volere di dominio sulle genti elvetiche.

 

 
 
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