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Recensione dell'opera Farnace di Vivaldi dal Maggio fiorentino

William Fratti, 03/06/2013

In breve:
Il Festival del Maggio Musicale Fiorentino continua a produrre cultura e buona musica e in questa Ottantesima edizione, nonostante sia concentrata sul Bicentenario Verdiano e sul centesimo anniversario della nascita di Britten, propone la prima esecuzione assoluta dell'ultima revisione de Il Farnace di Antonio Vivaldi, mai andata in scena dopo gli sfortunati avvenimenti che videro il lento declino del celebre compositore.


All'esterno del Teatro Comunale è presente una piccola manifestazione di protesta dei lavoratori della Fondazione, cui si aggiunge l'appoggio morale del direttore Federico Maria Sardelli, immediatamente espresso al suo ingresso in buca. Il momento economico e finanziario italiano è difficile per tutti, non solo per gli operatori della cultura, e certamente sarebbe più facile ed accettabile sostenerli se non si vedessero situazioni in cui molti dei percettori dello stipendio pubblico se ne stanno comodamente seduti su una sedia, durante l'orario di lavoro, intenti a sonnecchiare, sbadigliare, telefonare, giocare con l'iPhone, l'iPad o le parole crociate. E ciò capita molto spesso, purtroppo non solo al Maggio, ma anche in tanti musei della città. Prima di protestare molto probabilmente si dovrebbe fare un sano ed approfondito esame di coscienza.
 
L'occasione di questa primissima esecuzione, nella recentissima edizione critica curata da Bernardo Ticci, con l'aggiunta della sinfonia da Il Bajazet, dell'aria di fine secondo atto da Il Farnace del 1727, ma senza il mai ritrovato terzo atto, poteva essere il momento ideale per la produzione di un allestimento davvero suggestivo e orientato alla parola, lontano dalla tradizione operistica, dal teatro barocco, dai simboli e dalle allegorie che rischierebbero di allontanare lo spettatore contemporaneo dalla reale drammaturgia del testo, esattamente così come ne esprime il desiderio il regista Marco Gandini. Purtroppo tale idea non è sviluppata in maniera corretta. Le incomprensibili impalcature, i carri luminosi, le luci fastidiosamente abbaglianti, sono tutti elementi che disturbano la visione e l'ascolto e alterano l'attenzione; così come la presenza degli spartiti sui leggii, cui spesso si affidano i cantanti, non contribuisce positivamente allo sviluppo dell'azione scenica. Sarebbe stato più efficace rappresentare la vicenda senza particolari ingombri scenografici, anche solo sulla pedana montata in proscenio e attorno alla buca, coadiuvati dalla giusta attrezzeria e da un valido gesto teatrale. Ottima è anche l'idea di utilizzare costumi senza epoca precisa; peccato però per le giacche indossate dai romani, davvero troppo ordinarie e prive di particolare significato.
 
La direzione di Federico Maria Sardelli è puntuale e precisa e sa guidare con eleganza l'organico ristretto del Maggio, con la sua mano di espertista del repertorio. Sul fronte vocale è difficile esprimere chiare opinioni in un'opera eseguita per la prima volta in epoca moderna, poiché le precedenti versioni, così come previsto da Vivaldi stesso, utilizzano diversi registri vocali per gli stessi personaggi.
 
Cercando di entrare più nel merito di ognuno dei singoli protagonisti, si evidenzia una certa raffinatezza nelle interpretazioni di Mary-Ellen Nesi, Delphine Galou e Loriana Castellano nei ruoli di Farnace, Berenice e Selinda. Le artiste sanno essere delicate, tingendo di drammatico dove occorre, esprimendosi in maniera molto soddisfacente nel tipico canto barocco.
 
Sonia Prina invece si distingue per una certa abilità nell'uso dell'accento, soprattutto nel recitativo. Il colore scuro della sua voce è incantevole e presumibilmente si adatterebbe meglio ad una parte più vigorosa, ma sa esprimere molto bene il bipolarismo di Tamiri, prima eroica poi patetica, quindi audace ed infine tenera.
 
Roberta Mameli è un Gilade molto contemporaneo e la sua esecuzione è più attenta alla resa del personaggio che non al belcanto e alla purezza del suono. Forse questo è il motivo per cui riscuote il maggio successo, soprattutto dopo l'aria “Quell'usignolo che innamorato”, ma non è affatto semplice stabilire se sia meglio focalizzarsi sull'interpretazione scenica piuttosto che sull'esecuzione musicale in questo tipo di repertorio.
 
Efficaci, ma non entusiasmanti, il Pompeo di Emanuele D'Aguanno e l'Aquilio di Magnus Staveland.

Al termine dello spettacolo il pubblico intervenuto, che occupa solo le file di platea e palchi, mentre le gallerie restano vuote, accoglie calorosamente tutti gli artisti, ad esclusione del gruppo di regia.

Molti spettatori abbandonano la sala dicendo: “era meglio falra in forma di concerto, così come era inizialmente previsto”. 

 
 
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