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Recensione della Trilogia Verdiana dal Teatro Municipale di Piacenza

William Fratti, 17/04/2013

In breve:
Grandi dissensi per questa operazione sulla Trilogia Verdiana del Teatro di Piacenza, direzione monotona, cast per il 90% inadeguato, e scelte registiche opinabili. Unico trionfatore della serata Simone Piazzola.


Tra fischi, disapprovazioni, qualche tiepido applauso e solo un vero e pieno elogio, si conclude la Stagione Lirica 2012-2013 del Teatro Municipale di Piacenza, con le messinscene di Rigoletto, Il trovatore e La traviata firmate da Cristina Mazzavillani Muti.

Gli spettacoli della trilogia popolare di Giuseppe Verdi non piacciono al pubblico piacentino e le ragioni sono molteplici. Prima di tutto a fare infuriare i melomani e gli appassionati intervenuti è l'utilizzo dei microfoni che, per spiegarlo con le parole della Mazzavillani Muti, “è una scelta registica funzionale a una spazializzazione dei suoni”. Purtroppo sono in pochi a credere a queste parole, ma senza prendere alcuna posizione in merito è doveroso segnalare che l'amplificazione, nei teatri d'opera, è assolutamente inaccettabile; inoltre l'esperimento della spazializzazione dei suoni, se vero, non è ben riuscito, sortendo in alcuni casi effetti d'eco fastidiosi, in altri un'esagerazione inverosimile delle voci; infine, se invece si è voluto amplificare nascondendosi dietro il percorso spaziale dei suoni, allora tutto ciò diventa inaudito e vergognoso. Alvise Vidolin, curatore del sound design, sostiene che “la musica è artificio e come tale richiede di poter trasformare a piacimento gli elementi che la compongono e quindi anche lo spazio deve essere manipolabile: esso è diventato la quarta dimensione della musica”. Parole che, ad un'analisi più approfondita, appaiono vuote, poiché la realtà è tutt'altra: è lo spazio ad avere le tre dimensioni ed è il tempo, secondo il modello di Einstein, a divenirne la quarta. Il suono, essendo la sensazione uditiva di una vibrazione di un corpo in oscillazione, accade all'interno dello spazio; come può dunque lo spazio essere una dimensione della musica? Piuttosto è vero il contrario.

L'allestimento dei tre titoli verdiani, per cui la regista si avvale della collaborazione di Vincent Longuemare, con scene di Italo Grassi (Rigoletto, La traviata), visual design di Paolo Miccichè e immagini fotografiche di Enrico Fedrigoli (Il trovatore) e costumi di Alessandro Lai, è efficiente e funzionale e avrebbe potuto sortire un buon effetto se non fosse stato screditato, oltre che dall'utilizzo dei microfoni, da numerose soluzioni poco felici che, sommate tra loro, hanno contribuito al grave insuccesso della produzione. Ad esempio la messinscena di Rigoletto, altamente evocativa – da segnalare le bellissime luci di taglio di Longuemare – confonde le idee con un terzo atto orientato al realismo; inoltre il protagonista non ha alcun segno di difformità; e perché deve spintonare Giovanna contro al muro? E perché Gilda non si traveste da uomo nel finale? Come fanno a confonderla per un “mendico”? Ne La traviata l'uso degli specchi, oltre a essere poco originale, poiché già utilizzato in maniere più o meno simili da molti altri registi, infastidisce il pubblico, arrivando a scene esilaranti in cui il continuo roteare di questi, abbinato al canto della protagonista, pare diventare la sirena di un mezzo del soccorso pubblico; per non parlare di Violetta che scrive “a lui” senza carta e penna; o Alfredo, che prima scopre che “ell'è alla festa!” senza leggere alcun biglietto, poi paga i servizi della sua amata lanciandole la giacca in faccia; o Flora e il Marchese, le cui mani non vengono lette da alcuno (il coro risiede nei palchi di proscenio); o Germont, che ha un trucco da apparire più giovane del figlio.

Anche le coreografie di Catherine Pantigny sono in parte fuori luogo: la danza contemporanea e il teatro danza non si adattano bene a tutti i momenti musicali coreografici; soprattutto si cede a violenza gratuita, poco elegante e per nulla filologica, durante il coro dei mattatori. Ne Il trovatore le proiezioni si muovono così velocemente da far venire la nausea a molti spettatori e le immagini di Fedrigoli vogliono gli zingari allocati nei pressi di un centro industriale; ma anche in questo caso la poca originalità non ha alcun valore; inoltre, come mai Leonora prima scompare nell'acqua del mare, poi si appressa a salvare Manrico scalza ed in sottoveste? Fortunatamente devono nuovamente essere messe in evidenza le ottime luci di Longuemare, che talvolta fa apparire i personaggi sospesi all'interno delle immagini.

Altro motivo dell'insuccesso è la direzione soporifera di Nicola Paszkowski sul podio dell'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini. La mancanza di colori, accenti e sfumature rende tutto molto piatto, inoltre l'eccessiva lentezza obbliga i cantanti a prendere lunghissimi fiati o a respirare in punti non troppo opportuni. Le pagine riuscite positivamente, in cui il direttore ha saputo trasmettere qualche emozione, sono “Amami Alfredo” e “Oh, infamia orribile”. Molto buona è invece la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza guidato dall'abile Corrado Casati. Solo “Squilli, echeggi” non è riuscito alla perfezione, ma presumibilmente gli artisti non erano in grado di visualizzare chiaramente il direttore a causa del buio e delle proiezioni.

Sul fronte vocale il solo interprete ad aver dimostrato di essere all'altezza del ruolo – ed il solo ad avere ottenuto una vera e propria ovazione – è Simone Piazzola, che già aveva emozionato il pubblico piacentino nei panni di Germont lo scorso anno. Addirittura sa approfittare dei lunghi tempi di Paszkowski per appoggiare ancor meglio la voce, creandosi delle situazioni in cui può sfoggiare i suoi bellissimi pianissimi all'interno di lunghe forcelle. Il fraseggio è sempre elegante ed espressivo. Il personaggio dotato dello spessore di un artista navigato.

Gli altri cantanti, ognuno coi propri pregi e difetti, non escono dalla media: compiono il loro dovere e vengono accolti con ben poco entusiasmo.

Il solo a subire le ire del loggione è il Rigoletto di Francesco Landolfi, forse perché dà alla parte degli accenti così marcati e veristi da sembrare Compare Alfio. Rosa Feola è una Gilda dalla buona intonazione, ma con voce piccola, acuti esili e fraseggio povero. Giordano Lucà è un Duca dalla vocalità chiara e limpida, ma con un vibrato eccessivo e scarso negli accenti.

Monica Tarone, che dopo l'aria di primo atto è incomprensibilmente accolta come una primadonna degli anni d'oro della lirica, purtroppo non possiede l'adeguato spessore vocale per affrontare correttamente il ruolo di Violetta: le note basse non si sentono e molti acuti, a causa di una tessitura tutt'altro che leggera, sono tirati. Traviata non è un Mi bemolle. Si vuole continuare a strappare applausi al pubblico con una sola nota – tra l'altro riuscita neppure benissimo – o è forse arrivato il momento di ridare un certo peso a questo ruolo? Giuseppe Verdi ne sarebbe certamente molto felice. Davide Giusti è un Alfredo che non va molto oltre la media, ma la voce morbida e intonata è da riascoltare ed il personaggio è abbastanza convincente.

Il Manrico di Luciano Ganci è certamente dotato di vocalità importante e buono squillo, ma non riesce a reggere né l'intonazione, né la lunghezza della parte. Anna Kasyan è una Leonora elegantissima, soprattutto nei pianissimi e nell'uso dei colori, ma la voce non è molto possente, le agilità sono pachidermiche e in quarto atto arriva evidentemente molto stanca. Alessandro Luongo è certamente un buon Conte di Luna ma, forse a causa di regia e direzione, non riesce a dare quanto dimostrato di possedere in precedenti spettacoli in ruoli abbastanza similari. Tea Demurishvili torna ad interpretare il ruolo di Azucena per la quarta volta nelle Terre di Verdi (Parma 2001, Busseto 2005, Vigoleno 2007), ma non riesce a riscuotere lo stesso successo delle passate edizioni: la voce si è molto appesantita ed ha perso molto della naturale morbidezza di cui era dotata.

Luca Dall'Amico è uno Sparafucile corretto, ma poco imponente e un Ferrando molto statico e scarsamente duttile, molto piatto nella celebre “Abbietta zingara”. Clara Calanna è dotata di bella voce brunita, ma la sua Maddalena non va oltre la lettura dello spartito. Isabel De Paoli è più adeguata come Giovanna che come Flora ed è in difficoltà negli acuti di Ines. Daniel Giulianini potrebbe essere un efficace Monterone, ma l'amplificazione non rende possibile esprimere opinioni.

Donato Di Gioia è opportuno sia come Marullo, sia come Douphol. Giorgio Trucco non è troppo preciso nell'intonazione di Borsa, Gastone e Ruiz. Claudio Levantino sa essere un buon Ceprano e un altrettanto valido Marchese. Antonella Carpenito è meglio come Contessa di Ceprano che come Annina. Yelizaveta Milovzorova è un buon paggio e Federico Benetti è un dottore abbastanza centrato.

 

 
 
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