» Recensione opera lirica Il Trovatore di Giuseppe Verdi al Teatro Massimo di Palermo
Gigi Scalici, 17/11/2011
In breve: Palermo, 23/10/2011 - Delude le aspettative “Il Trovatore” risorgimentale con l'allestimento del Teatro Comunale di Bologna, per l'interpretazione nella prima rappresentazione che tuttavia recupera parzialmente con le repliche successive.
Chiaramente non è lo slittamento storico dell'allestimento, ambientato nel
risorgimento piuttosto che nella Spagna del XV secolo, a determinare il mancato successo del
popolare capolavoro della trilogia verdiana che il Teatro Massimo
ha inserito cronologicamente tra il Rigoletto (con Leo
Nucci) a termine del 2009 e la prossima Traviata del
2012 (con Mariella Devia,, sperando che non ci siano le
ricorrenti variazioni sul cast).
Tutto
sommato lo spettacolo sotto l'aspetto visivo nell'insieme è gradevole, con un
bel gioco di luci, tutt'altro che minimalista come spesso lamentiamo, ma ricco
di scene che occupano anche in elevazione, con scale e soppalchi, gran parte del
vasto palcoscenico. La
regia di Paul Curran, ripresa da Oscar Cecchi,
con Scene e costumi di Kevin Knight, è
alquanto equilibrata e riesce ad assecondare l'intrecciato melodramma, non
causando lunghe attese nonostante l'unico intervallo a metà dei quattro atti.
La problematica è invece di natura vocale, ma non per tutti gli interpreti e
non per questioni legate alle elevate intensità sonore dell'orchestra perché,
almeno in questa ripresa domenicale con lo stesso cast principale, tutti i
solisti hanno avuto adeguato spessore e volume, senza alcuna limitazione che
potesse essere sovrastata dalla compagine orchestrale o dall'imponente coro nei
concertati.
La signora Amarilli Nizza - spesso ospite
nel capoluogo siciliano come eroina del melodramma verdiano e con tanta
esperienza in un esteso repertorio sin degli anni novanta - è nelle vesti di
Leonora, tanto contesa tra Manrico ed il Conte di Luna,
rivali ed ignari fratelli. Non si può certo dire che le manchino fiato e
volume vocale, anche nelle note fuori pentagramma. Il suo canto scorre per
tutta la rappresentazione senza particolare difficoltà, semmai, nonostante non
sia necessario, il milanese soprano lirico-spinto ricorre frequentemente a
talune forzature oscurando la limpidezza delle note, perdendo in omogeneità e
chiarezza di dizione e con una resa vocale spesso monocromatica. Sono poco
evidenti infatti la soavità di “Tacea la notte placida” e le agilità ed
i trilli di “Per esso io morirò ” del primo atto, l'estasi di “Sei
tu dal ciel disceso” del secondo e l'abbandono di “D'amor sull'ali
rosee “ sino al mesto “Prima che d'altri vivere” del quarto,
tenuto conto che la struttura della parte è di natura belcantistica.
Convincente invece nei fortissimi del terzetto con il Conte di Luna e
Manrico al termine del primo atto e nei duetti degli atti successivi
sia con l'uno, sia con l'altro personaggio.
Marcello Giordani
risolve con miglior trasporto sentimentale il ruolo di Manrico: romantico ed
eroico sin dalla serenata fuori scena del primo atto, si distingue per la
varietà dei colori del suo bel timbro di tenore lirico-spinto e per la chiara
dizione nell'andante “Ah sì ben mio” e nella celebre cabaletta “Di
quella pira” del terzo atto. Purtroppo inciampa nel temibile do di
petto finale, tradizionale ma non previsto in partitura. In effetti purtroppo
si nota a carico del noto ed affermato tenore siciliano, dotato di un'ottima
estensione che gli permette di affrontare con successo i maggiori ruoli in tutto
il mondo, qualche difficoltà nella tenuta degli acuti e nei passaggi di
registro, probabilmente per una effettiva stanchezza a causa dei suoi
innumerevoli impegni e rincresce che un artista così esperto ed adatto al
Trovatore, non abbia potuto godersi un meritato applauso
finale. A tal proposito ritengo opportuno ricordare che il compianto
Salvatore Licitra giovanissimo, al suo primo Manrico fu
fischiato ingiustamente alla Scala proprio per non aver
eseguito il famoso do di petto, a causa di un'esecuzione assolutamente critica
della partitura da parte del Maestro Muti.
Molto meglio per il rivale Conte di Luna, Roberto Frontali
in questa recita in piena forma vocale ed interpretativa. Il noto baritono
romano in piena carriera artistica, esperto interprete verdiano ed applaudito
Simon Boccanegra e Nabucco a Palermo, mette a fuoco il
personaggio sin dalle prime note del primo atto. E' correttamente
autorevole, cattivo, veemente come richiesto dal compositore che gli destina
difficili sopracuti che l'artista risolve con gran professionalità. Si abbandona in “ Il balen del suo sorriso”
sostenuto dalla sicura estensione alle soglie tenorili, pur rimanendo nelle
rigide vesti dell'importante Conte di Luna. Esprime la sua
caratteristica durezza in “Tu prole, o turpe zingara” e nel duetto con
Leonora del quarto atto “Ah, dell'indegno rendere” e manifesta
passione ed incredulità in “Tu mia, ripetilo” con coerenza nella
severità del fondamentale personaggio da cui dipendono le sorti dei deboli e
tormentati Manrico e Leonora.
Anche Azucena riveste un
fondamentale ruolo insieme al Conte di Luna e Mariana Pentcheva
è interprete idonea e convincente come zingara. Sin da “Stride la vampa”
il mezzosoprano bulgaro, che ascoltiamo pure spesso a Palermo, dimostra
passionalità nel raccontare la vicenda del rogo e nell'espressione per l'amore
di un figlio che non è suo. Il suo timbro è intenso e scuro nell'emissione
dei trilli e nelle cantilene, spazia il tutto il registro con sicurezza e con
maggior agio nella zona centrale ed in quella più bassa, anche se con alcune
perdonabili disomogeneità vocali. E' intensamente drammatica in “ Mio figlio
avea bruciato .Sul capo mio le chiome sento rizzarsi ancor” in perfetta
sintonia con l'ottima orchestrazione. Ha tuttavia difficoltà nella zona più
alta e nella veloce cadenza di “Perigliarti ancor languente” nel
bellissimo e complesso duetto con Manrico affronta con molta difficoltà
il temibile Do sopracuto finale. Risolve bene l'allegretto “Giorni poveri
vivea“ del terzo atto e nel quarto tra sogno e realtà è accorata madre nel
bellissimo e noto andante del duetto “Ai nostri monti ritorneremo” con
l'altrettanto bravo ed intenso Marcello Giordani, per
concludere al termine dell'opera con il terribile grido che emette suo malgrado
in “Sei vendicata o madre”, dopo che Manrico viene giustiziato
dall'inconsapevole fratello Conte di Luna.
Ma se il melodramma
si conclude con professionalità, non si può dire altrettanto dell'inizio
dell'opera. Subito dopo le brevi battute iniziali dell'orchestra, assistiamo al
racconto di Ferrando affidato ad un basso sin troppo giovane e non tanto
adeguato ad un ruolo altrettanto rilevante. Sin da “All'erta, all'erta”
la sua voce anche se di buon timbro è troppo vibrata, non ben impostata e se non
si sapesse che si tratti del giovane Giovan Battista Parodi si
penserebbe senz'altro a quella di un artista al termine della carriera.
Impegnato soprattutto nel primo atto, pur dalla corretta linea di canto non
convince nell'andante con i trilli “Di due figli vivea padre beato” e
nell'agilità di “Abietta zingara”. Sicuramente un momento non
felice in un ruolo forse non ancora adatto per l'artista genovese che,
nonostante la giovane età, ha già tanta esperienza.
Dignitosi per quanto concerne ancora le voci soliste,
il tenore Roberto Jachini Virgili ed il soprano Sabrina
Testa, rispettivamente Ruiz ed Ines.
L'orchestra ed il coro, rispettivamente concertati e diretti da Renato
Palumbo ed Andrea Faidutti sono la risorsa di questa
edizione. Il coro è saldo e come al solito esprime gran musicalità e
compattezza nel famoso “Chi del gitano”, accompagnato dall'innovativo
ritmo dei martelli sulle incudini. Nel bellissimo ed intenso equilibrato
concertato al termine del secondo atto, è tutt'uno con le voci soliste,
nell'esprimere l'acceso contrasto di passionalità che pervade il melodramma. L'adagio del Miserere
del quarto atto è poi di raffinata esecuzione.
Il tessuto orchestrale,
con un organico al gran completo, come in tutti i capolavori verdiani è
complesso e non di facile esecuzione. Il Trovatore in
particolare è ricco di melodie, di ritmi veloci, di tempi dispari e di timbri
molto intensi e delicati nello stesso tempo e dipende dal direttore d'orchestra
assecondare la vasta strumentazione per un'esecuzione particolarmente
espressiva. Il Maestro Renato Palumbo - di ampia esperienza
di direzione nei maggiori teatri internazionali e profondo conoscitore del
Trovatore con cui ha esordito giovanissimo - affiatato con i professori
d'orchestra del Massimo riesce ad ottenere dalla compagine orchestrale una
corretta lettura, con un attento stacco dei tempi (anche se qualche solista lo
anticipa) e rispettando quanto richiesto dal compositore, anche in quelle misure
apparentemente troppo intense ed arbitrarie, ma tipicamente verdiane e da cui
emerge qualche anticipazione di verismo, conquistandosi al termine dello
spettacolo i più calorosi applausi.
La rappresentazione che ha avuto
rari consensi a scena aperta, al termine è stata tuttavia molto applaudita dal
folto pubblico di questo turno molto esigente, ma nello stesso tempo generoso
nei confronti degli artisti che comunque hanno cercato di dare il massimo.
La precedente edizione risale al 2002 con
Cedolins, Alagna, D'Intino e Gazale diretti da Daniel Oren, con la regia di
Pizzi.
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