Il Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti inaugura la programmazione 2010 con Poliuto, opera scritta per il Teatro San Carlo di Napoli nel 1838, ma rappresentata postuma soltanto dieci anni più tardi, mentre la versione francese è in scena all'Opéra di Parigi nel 1840 con il titolo Les martyrs.
Purtroppo poco rappresentata, la tragedia lirica di Salvatore Cammarano musicata da Donizetti è un vero capolavoro, che non ha nulla da invidiare alle pagine marziali e alle ambientazioni storiche di Norma o Nabucco e a cui Verdi ha sicuramente volto uno sguardo nel comporre "O qual soave brivido" in Un ballo in maschera, "Seguirti fino agli ultimi" ne La forza del destino e "Gloria all'Egitto" in Aida.
Lo sforzo della Fondazione e del Teatro Donizetti nel mettere in scena questo titolo va sicuramente premiato; purtroppo la prima di venerdì 17 settembre non è all'altezza delle aspettative e tutta la rappresentazione appare dozzinale ed approssimativa sotto ogni punto di vista. I "professionisti di grande fama" come cita il direttore artistico Francesco Bellotto nel libretto di presentazione della manifestazione, sono capitanati da un Gregory Kunde al suo debutto nel difficile ruolo del titolo, di cui porta a casa a malapena la pelle.
Probabilmente messo in difficoltà da una regia apparentemente priva di idee e da una direzione alquanto superficiale, il personaggio sembra completamente inesistente, tanto che una recita in forma di concerto avrebbe sortito lo stesso effetto. Tutto il primo atto è eseguito senza vena né vigore, mentre il secondo riesce meglio, anche se dopo qualche bell'acuto e alcune interessanti variazioni nel da capo in "Veleno è l'aura… Sfolgorò divino raggio" – che strappa gli unici scroscianti applausi della serata – la stanchezza ha probabilmente iniziato a prendere il sopravvento. Il grave errore commesso è forse quello di voler forzare la voce drammaticizzando ed eroicizzando troppo un ruolo belcantistico, che invece necessiterebbe di suoni più eleganti e legati, di colori e sfumature più tipiche del Donizetti serio, piuttosto che di un canto spinto.
Il celebre tenore è affiancato da Paoletta Marrocu, debuttante nel ruolo di Paolina, di cui è possibile salvare soltanto la presenza scenica, purtroppo in parte compromessa da incomprensibili scelte di regia. La bella aria "Di quai soavi lagrime" e la cabaletta successiva "Perché di stolto giubilo" oltre ad essere tagliata, appare modificata di tonalità ed è soltanto l'inizio di un'esecuzione fortemente inadeguata, che vede il suo apice nelle urla di terzo atto, che portano il pubblico a rabbrividire, bisbigliare e dissentire ad alta voce. Soltanto qualche nota centrale emessa in piano segue una minima regola di canto ed è piacevole da udire, il resto è composto da acuti sguaiati, agilità appesantite, passaggi decisamente poco puliti.
Simone Del Savio è un Severo che si presenta con una vocalità brillante, ma col procedere della tragedia si mostra anch'egli in difetto nel colore e negli accenti, poco presente scenicamente e spesso coperto dalla compagine orchestrale. Il duetto con Paolina "Il più lieto de' viventi" è forse la pagina meglio riuscita, purtroppo rovinata da un'assurda scena del tè: "gli eventi possono essere contenuti in un salotto privato, che si affaccia sul paesaggio, quella Melitene che si è proposta alla mia fantasia come un deserto roccioso e lontano" scrive Marco Spada nelle note di regia, anche se è difficile credere che Melitene si sia proposta a Spada, piuttosto è facile pensare che Spada si sia immaginato Melitene.
Andrea Papi gode di una bella voce scura ed ombrosa, ma non è perfettamente a suo agio nella parte di Callistene, la cui tessitura non gli è forse troppo congeniale, od è la direzione mediocre che lo mette in difficoltà. Completano il cast Massimiliano Chiarolla, Dionigi D'Ostuni, Pier Marco Vinas.
La guida di Marcello Rota è alquanto grossolana e superficiale, che sul podio di un'orchestra poco precisa non ha certo reso omaggio alla partitura donizettiana. Sufficiente è la prova del coro, senza infamia e senza lode.
Marco Spada mette in scena uno spettacolo, con scene e costumi di Alessandro Ciammarughi, apparentemente privo di senso, di idee originali, di eleganza, di drammaticità, di pathos.
A tale proposito sono state pubblicate quattro pagine di note di regia – istruzioni per l'uso che nel teatro non hanno ragione di esistere, poiché la bravura di un regista sta anche nel riuscire a trasmettere chiaramente la propria idea – ma non si sono trovate notizie che spiegano in maniera esauriente la decisione di mischiare costumi e ambientazioni di epoca romana e del XX secolo, per arrivare al grottesco, se non ridicolo, di mettere in scena delle statuine di centurioni, simili a quelle acquistabili nelle bancarelle accanto al Colosseo. Ciò che si sembra di evincere da tali note di regia, è che forse Poliuto di Donizetti non piace a chi lo ha dovuto mettere in scena; si legge: "quando Donizetti, con le difficoltà imposte da una censura ormai isterica, si addentra più e più nel testo spegnendo il proprio entusiasmo e teme di aver scritto qualcosa di troppo fracassoso non ha tutti i torti. Proprio l'atmosfera mistica manca, nonostante i coretti ripetuti in più punti dell'opera (e anticipati nella sinfonia), mentre più sentito è l'estroverso ambaradan che precede l'arrivo di Severo. […] Poliuto […] resta non realizzata in toto, […] è opera che sente un certo schematismo dei numeri chiusi e, a mio parere, di una certa insita freddezza, dovuta proprio al ridimensionato scavo psicologico dei protagonisti". Malauguratamente, a quanto sembra e a quanto è parso al pubblico che ha fortemente contestato la messinscena al termine della rappresentazione, Marco Spada non è riuscito a trasmettere agli spettatori né maggior calore, né più intensa personalità ai personaggi.
Certo è che produzioni del genere non aiutano i teatri a far cambiare idea agli amministratori pubblici, circa il ridimensionamento dei finanziamenti agli spettacoli da vivo. |