E pensare che il vero successo di La Bohème è avvenuto proprio a
Palermo nel 1896 e non in occasione della prima al Regio di Torino,
nonostante la direzione di Toscanini.
La pregevole creatura di Giacomo Puccini, musicata su libretto di
Giacosa ed Illica - tratto da Scenes de la vie de Bohème di Murgers
- ha assolutamente superato l'omonima opera contemporanea composta da
Leoncavallo, determinando definitivamente il litigio dei due amici musicisti
per ovvii motivi concorrenziali.
Rappresentare un capolavoro così famoso nel mondo operistico è compito piuttosto
arduo.
La Bohème è tra quelle eseguite maggiormente, anche in tv, i suoi motivi
molto orecchiabili sono conosciuti a memoria, la storia è abbastanza scorrevole,
i contrasti tra la giovane allegria e la infreddolita miseria e tra gli amori ed
i tradimenti che però si risolvono, sono delineati con estrema chiarezza
musicale e recitativa ed il finale è molto commovente.
Non si pretende certamente la qualità musicale di alcune incisioni discografiche
più stimate (ad esempio, Freni, Pavarotti, Ghiaurov e Panerai diretti da
Karajan), né un allestimento tradizionale che rispecchi fedelmente il
libretto e cui siamo maggiormente abituati (a torto od a ragione?), ma è
importante che pervenga al pubblico un quadro d'insieme equilibrato, sia
visivamente sia musicalmente ed in particolare tra la fossa orchestrale ed i
cantanti.
In quest'edizione - quasi come sempre - scena semifissa con un'imponente
impalcatura di tipo edile in metallo con scalette di accesso, su una grande
piattaforme girevole che ha consentito un rapido cambiamento tra i quattro
quadri, con un solo intervallo in tutta la rappresentazione.
La famosa soffitta del primo e dell'ultimo quadro non era quindi sui comignoli
di Parigi, bensì in un piano sottostante un soppalco dell'impalcatura transitato
dai vari interpreti e Mimì non era la solita dirimpettaia, veniva invece
dall'alto e nel terzo mancava la caratteristica atmosfera della barriera d'Enfer.
Questa invenzione registica è stata però molto funzionale nel secondo quadro -
da Momus - rendendo molto dinamico lo svolgimento degli avvenimenti nella
grande piazza, con un'ampia scorrevolezza di tutti i personaggi che notoriamente
si avvicendavano nella moltitudine popolare, con i piacevoli costumi d'epoca di
William Orlandi, ai piedi della grande insegna luminosa del locale.
Rincresce però che proprio alla fine di questo quadro, in cui la tessitura
musicale è tanto intrecciata e complessa, sia emersa una confusione oltre misura
tra orchestra e voci, conferendo allo spettacolo una connotazione
prevalentemente operettistica, a discapito dei solisti e del coro, voci bianche
comprese, tuttavia ben coordinati rispettivamente dai maestri Andrea Faidutti
e Salvatore Punturo.
Buono il cast degli interpreti, quasi tutti ben affermati nell'ambito
internazionale.
Marcello Giordani è un tenore siciliano in piena carriera, dal bel timbro
lirico – spinto e di ottima estensione verso le note più acute, molto apprezzato
nel suo vasto repertorio.
Rodolfo, sin dalla metà degli anni ottanta, ha retto con sicurezza il
famoso intenso Do di petto della “Speranza” in “Che gelida manina“
del primo atto, ma non è sembrato particolarmente coinvolto nell'emozione dello
scrittore innamorato a primo acchito di Mimì, pur conferendo al
personaggio corretta credibilità nel contesto della recita, sempre limitatamente
alle condizioni registiche.
Più giovane il soprano di origine greche Alexia Voulgaridou, sulle scene
liriche dagli anni novanta, anche lei affermata interprete dei maggiori ruoli
sopranili lirico-spinti ed esperta Mimì. Con un bel timbro pieno ha
risolto “Si, mi chiamano Mimì” con sicurezza, ma pur essendo pienamente
dentro il personaggio non ha ricevuto, al termine della famosissima aria, così
come il suo Rodolfo, quell'ampio consenso delle grandi occasioni.
Piuttosto, entrambi sono stati eccellenti interpreti nei recitativi del terzo
quadro, alla barriera d'Enfer e tanto commoventi nella rassegnazione della scena
d'addio “Donde lieta uscì al tuo grido d'amore” di Mimì e “Ci
lasceremo alla stagion dei fiori”.
Il terzo quadro in effetti, pur riconoscendo la bellezza delle arie del primo e
la drammaticità dell'ultimo, in questo storico capolavoro pucciniano si
distingue per la raffinatezza e per la chiarezza con cui emergono le differenze
con la seconda coppia di amanti Musetta-Marcello, nella “bella età
d'inganni e di utopie”. Nella prima ci si ama in scena (lui il poeta, lei la
poesia) e si litiga fuori, nella seconda (lei vipera, lui rospo) si litiga
invece quasi sempre.
La Musetta della giovane Annamaria dell'Oste, soprano lirico
d'agilità - buona regina della notte nel Flauto magico mozartiano -
probabilmente non proprio a suo agio in questo ruolo, è stata sin troppo
civettuola nella sua disinvoltura e dal timbro aspro nel valzerino di “Quando
men vò”, simbolicamente accompagnata al piano da Schaunard.
Per l'altrettanto giovane artista siciliano Vincenzo Taormina,
proveniente dall'accademia di Carlo Bergonzi, si sono confermate le
qualità di buon baritono un po' chiaro ma intenso, nella parte del pittore
Marcello cui Puccini non ha previsto alcuna aria, ma che riveste un
ruolo importante nell'equilibrio del melodramma. Il suo Marcello è stato
molto corretto ed ha riscosso ampi consensi, indipendentemente dall'aspetto
campanilistico.
Anche l'esperto Fabio Previati, baritono veneziano dal bel colore
compatto e più sicuro verso il registro grave - ricordo un ottimo papà Germont
in Traviata, al Teatro Giuseppe di Stefano di Trapani di qualche anno fa - che
alterna spesso i ruoli di Marcello e di Schaunard, è stato più che
dignitoso scenicamente e vocalmente nell'ironia dell'esemplare ruolo del
musicista, sempre in vistoso abito da concerto per tutta l'opera.
Del giovane basso sudcoreano In-sung Sim, odierno interprete
Rossiniano, Mozartiano e Verdiano, nelle vesti del filosofo Colline, si è
apprezzata altresì la correttezza musicale e la chiarezza di dizione nella
famosa “Vecchia zimarra” (inserita dall'autore insieme a “Che gelida
manina” di Rodolfo al termine della stesura dell'opera).
Completava la rosa del cast, da grande attore il veterano basso-baritono
cremonese Orazio Mori, al termine della carriera. Benoit nel primo
atto ed Alcindoro nel secondo, ha contribuito a rendere molto divertenti
le due rispettive scene insieme ai bohèmien, soprattutto nella nota farsa del
pagamento dell'affitto del primo atto.
Come si accennava in premessa se nel contesto della rappresentazione ci fosse
stato un maggiore equilibrio generale, il risultato sarebbe stato superiore. Non
sono mancati infatti alcuni momenti di alta drammaticità ed altri veramente
piacevoli.
Anche nella compagine orchestrale al gran completo d'organico e diretta da
Daniele Callegari, noto musicista internazionale sin dalla fine degli anni
ottanta in un vasto repertorio lirico-sinfonico, è stata riscontrata una certa
discontinuità, sia nell'equilibrio dinamico con il palcoscenico sia nello stacco
dei tempi che in alcune misure e soprattutto nel finale sarebbero stati
preferiti più larghi. Sono state comunque apprezzate talune raffinatezze nella
strumentazione solistica, come nel primo e nel terzo atto.
Il risultato finale, dalla risposta complessiva del pubblico non è stato
pertanto quello dei grandi avvenimenti. Meglio nelle repliche come in questa con
il primo cast cui si fa riferimento, ma in occasione della prima l'apprezzamento
è stato molto tiepido.
Gigi Scalici |