ROBERTO DEVEREUX FA SPICCARE IL VOLO ALLA FENICE CHE RINASCE
La magia
silenziosa e poco affollata di una Venezia sempre bellissima mi accoglie
sabato 19 settembre in un clima ancora estivo quasi tropicale.Va in
scena l'opera forse meno conosciuta e più focosa, a mio avviso, della trilogia
donizettiana delle Regine “Roberto Devereux” dove si fa
palpabile lo scontro tra uomini e donne, potere e sentimento e giganteggia la
figura e la statura morale formidabile della regina Elisabetta I.
Il teatro più bello del mondo ha platea e palchi poco affollati, anche per
disposizioni anticovid (il nuovo padrone che però non ha fiaccato la voglia di
fare arte e di bellezza di tutti noi), ma come ho riscontrato nella stagione
areniana di ripresa, il pubblico che c'è sembra essere triplicato per entusiasmo
e supplisce con calore e vivo interesse al vuoto visivo. Il suono nel teatro non
pieno sembra ingigantito ed arriva dritto al cuore. Uno per tutti, anche grazie
alla fulminea e temprante direzione del M. Riccardo Frizza,
autentico leone del podio, è stato il salto sulla sedia con relativa
esclamazione di un bambino del pubblico al primissimo bruciante e veemente
accordo forte della sinfonia.
Il direttore bresciano dona ed imprime nelle compagini veneziane un fuoco,
una forza quasi schiacciante, a tratti troppo forte arrivando a coprire la voce
del soprano nelle zone centrali, ma molto pertinente all'opera in questione. L'Orchestra
del Teatro La Fenice recepisce con grande maestria, senza alcuna minima
sbavatura e con ottima lettura musicale la grande direzione di Frizza, donando
momenti di grande suggestione a chi ascolta. Una menzione speciale alla sezione
delle percussioni molto presente ed incisiva.
Sul palco appare un'ambientazione essenziale e scarna, con un palco nudo e
percosso da elementi scenici essenziali, come volte architettoniche capovolte,
un trono, sedie nobiliari in stile su fondo e quinte nere. Il Coro del
Teatro La Fenice, guidato dal M. Claudio Marino Moretti,
in numero ridotto, in abito da concerto e con mascherine al polso quando
cantano, ben risponde alla situazione non usuale e non comoda del distanziamento
donando un momento molto pregnante nel coro “Le ore trascorrono” che
apre il secondo atto. L'organico ridotto non infligge mancanze alla sonorità,
alla musicalità ed alla bellezza delle voci percepita in ogni sezione.
Su tutti gli interpreti giganteggia Enea Scala nel
title-role di Roberto. Già favoloso Idreno nella
Semiramide veneziana due anni fa, il tenore ragusano dona grande
luminosità, potenza e fluente vocalità al personaggio. Svettante negli acuti,
uniforme e musicalissimo in ogni accento scolpito e vivo, voce raggiante e
sicura, fa intuire un intelligente ricerca di fraseggio e sensibile e personale
concezione del personaggio scenico e musicale. La sua aria della prigione e
conseguente cabaletta sono una lezione di canto. Enea si
conferma tenore di riferimento per i ruoli donizettiani e rossiniani. Lo
testimonia il trionfo decretatogli dal pubblico alla fine della scena della
prigione (quell'acuto tenuto lungo sul coro è stupendo!) ed ai saluti finali.
Elisabetta qui dovrebbe giganteggiare e far tremare con un solo
accento. Roberto stesso la definisce con la frase “Nel tremendo
sguardo” durante il duetto con Nottingham. Nella figura e nell'impostazione
scenica del personaggio di Roberta Mantegna, il soprano che la
interpreta, manca questo, manca la regina e la sua formidabile forza. La
bellissima e morbida voce, ben sgranata nelle agilità, è molto ben definita nel
registro medio-alto, la voce risulta però leggera e non adatta al ruolo sebbene
ne regga il peso. Talvolta si avverte una nota acida negli acuti estremi, un po'
tirati e nell'ardua caballetta finale. E' certo una grande prova di forza di
ogni primadonna donizettiana, ma in questo caso si avverte una latente
stanchezza. Il soprano sembra soffrire della violenza a tratti belluina del
personaggio (uno su tutti quel “Va “ alla fine del secondo atto, che
scolpisce e definisce il personaggio) e dona al pubblico solo la donna
innamorata . In breve manca totalmente il carisma del personaggio.
Il mezzosoprano russo Lilly Jorstad è una Sara di
lusso. Voce molto bella, pastosa e svettante negli acuti, lussureggiante direi,
figura elegante in un magnifico vestito blu elettrico, rende il personaggio
molto incisivo e per niente arrendevole e perdente.
Il suo consorte in scena, Nottingham, è il baritono
Alessandro Luongo. Voce brunita intensa e musicale, è un interprete
sempre presente e molto aderente allo stile del compositore donizettiano,
elegante in scena, pur donando forza virile ed incisiva al suo personaggio.
Come risultano corretti, musicali ed importanti nei loro ruoli Enrico
Iviglia (Lord Cecil), Luca Dall'Amico (Gualtiero),
Emanuele Pedrini (Un Paggio) e Carlo Agostini
(Un familiare).
L'opera era rappresentata in forma semiscenica.
La regia di Alfonso Antoniozzi è risultata pertinente ed è
riuscita a rendere, con pochi asciutti movimenti degli interpreti e del coro, la
cifra del momento storico, la violenza trattenuta e resa sofisticata propria
dell'epoca elisabettiana ed il nascondere sentimenti che tuttavia esplodono,
coadiuvato dalle luci taglienti e crude, ma importantissime del light designer
Fabio Barettin.
E' stato uno spettacolo molto bello, con un pubblico vivo e presente anche se
non numeroso, che fa sperare in un futuro migliore per l'opera lirica.
No, non ce la fa ad abbatterci il ciccione coronato (il virus)!
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