Il Teatro dell'Opera di Roma inaugura in grande stile la
Stagione 2019-20.
Valentina Carrasco mette in scena uno spettacolo dalle tinte
forti, che - attraverso la ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri il
Lunedì dell'Angelo del 1282 - è una denuncia contro l'oppressione dei diritti
umani, dei diritti civili e soprattutto dei diritti delle donne.
Nelle opere di Giuseppe Verdi la caratterizzazione
psicologica dei personaggi prevale sempre sulla vicenda e ne Les vêpres
siciliennes la regista è riuscita ad estrapolare messaggi e significati che non
hanno tempo e luogo, ma che sono insiti nella crudele natura umana, fatta di
abusi e soprusi. Dunque le angherie di uomini su altri uomini che creano
radicalismo; la violenza degli uomini sulle donne che crea dolore; ma dal quale
può nascere il bene e il bene può essere in grado di mitigare la spietatezza;
ciononostante l'estremismo non perdona e il circolo vizioso dei soprusi non si
può mai interrompere.
Le dure scene di una ipotetica ricostruzione - che non riesce ad avere fine
nell'interminabile cerchio della distruzione - firmate da Richard Peduzzi sono
il contenitore perfetto di questo spettacolo che trova il suo apice nelle
coreografie dei ballabili di terzo atto, ideate dalla stessa Carrasco e da
Massimiliano Volpini. Ottimo il disegno luci di Peter van Praet; efficaci i
costumi atemporali di Luis F. Carvalho.
Daniele Gatti, alla guida della strepitosa Orchestra
del Teatro dell'Opera di Roma, debutta in questo titolo particolarmente
complesso, forte della sua indiscutibile esperienza sia con il repertorio
francese, sia con quello verdiano. Il direttore riesce così a rendere i
cromatismi maestosi del grand-opéra, come pure gli accenti vigorosi del Cigno di
Busseto, mantenendosi molto compatto con buca e palcoscenico, guidando la
numerosa compagine di artisti nel creare la miracolosa magia del teatro che
emoziona.
Roberta Mantegna, come già riscontrato in precedenti
occasioni, possiede una preziosa musicalità che si esprime particolarmente nei
centri vellutati, ma continua ad avere seri problemi con gli acuti. Oltre a ciò,
nel difficile ruolo di Hélène, si nota anche un certo inacidirsi del
timbro nelle note basse; infine non riesce a superare l'imponenza del coro nei
concertati.
John Osborn è un Henri magnifico, indubbiamente
molto discosto da ciò che tradizionalmente ci si aspetta dal canto verdiano, ma
presumibilmente con una vocalità molto vicina a quella del primo interprete del
ruolo in francese. Il tenore americano, universalmente riconosciuto come un
grande esperto rossiniano e del grand-opéra, si mantiene sempre limpido e
omogeneo, non ingrossa e non scurisce i suoni, è saldo, sicuro e perfettamente a
suo agio lungo tutta la lunghissima parte che, del resto, è molto più acuta di
tanti altri ruoli del compositore delle Roncole.
Roberto Frontali è un egregio Montfort e
Michele Pertusi è un encomiabile Procida. I due veterani
verdiani si esprimono con una morbidezza, un fraseggio e un uso della parola
scenica davvero superlativi; la loro performance è una lezione di canto.
Efficaci i ruoli di contorno con il Danieli di Francesco
Pittari, il Béthune di Dario Russo, il
Vaudemont di Andrii Ganchuk, la Ninetta di
Irida Dragoti, il Thibault di Saverio Fiore,
il Mainfroid di Daniele Centra e il Robert di
Alessio Verna.
Eccellente il Coro del Teatro dell'Opera di Roma preparato
da Roberto Gabbiani; pure bravissimi il Corpo di Ballo,
gli allievi della Scuola di Danza e i mimi attori.
Entusiastiche e meritatissime ovazioni per tutti gli interpreti al termine
dello spettacolo.
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