Poter assistere alla prima mondiale assoluta di un'opera di Gaetano
Donizetti è un privilegio incommensurabile, paragonabile soltanto alla
prima messinscena de Il viaggio a Reims di Gioachino
Rossini a Pesaro nel 1984.
Il lavoro certosino di Candida Mantica, avviato nel 2008 in
seno a un dottorato di ricerca alla University of Southampton, su un progetto
ideato da Francesco Izzo - direttore scientifico del Festival
Verdi e direttore responsabile dell'edizione critica Works of Giuseppe
Verdi - e Mark Everist, finanziato da Arts and Humanities
Research Council, ha visto la sua prima assoluta in forma di concerto
alla Royal Opera House di Londra il 18 luglio 2018 in seguito alla commissione
di Opera Rara di un'edizione completa. Ma soltanto ora a Bergamo si ha la
possibilità di fruire de L'ange de Nisida in maniera completa,
in forma scenica e il più possibile musicalmente vicino a quanto scritto da
Donizetti, eliminando molte delle parti mancanti appositamente
scritte da Martin Fizpatrick per Opera Rara.
Come risaputo l'interesse del grande pubblico è circoscrivibile al repertorio
più conosciuto, ma comunque soggetto a mode. Forse anche per questo i precedenti
festival dedicati a Donizetti e Verdi sono sempre naufragati. Contrariamente il
Rossini Opera Festival, in quarant'anni di attività, ha insegnato che, nel lungo
periodo, l'accostamento del lavoro scientifico alla produzione artistica è una
carta vincente culturalmente e turisticamente. E finalmente, ormai da qualche
anno, Bergamo e Parma hanno adottato la medesima via.
Francesco Micheli, direttore artistico del festival, mette
in scena uno spettacolo fortemente evocativo, mischiando in un perfetto amalgama
la vicenda de L'ange con le vicissitudini della partitura autografa, ridotta a
brandelli, dispersa, gradualmente tornata alla luce e poi ricostruita nella
quasi totalità. Una mappa del tesoro, nascosto sull'isola di Nisida, in cui
figure arcane che evocano i tarocchi si muovono cercando di decifrare il proprio
o l'altrui destino.
Altrettanto intensamente suggestive le scene di Angelo Sala,
ma ancor più le luci di Alessandro Andreoli. Menzione a parte
per i costumi di Margherita Baldoni: ordinari quelli
dei solisti, ma strabilianti quelli in carta del coro, come tanti tarocchi -
arcani minori - che ruotano attorno agli arcani maggiori - i protagonisti.
Il solo anello debole della rappresentazione nel cantiere del Teatro
Donizetti in restauro è dato dal palcoscenico, troppo aperto, senza
alcuna parete in legno che possa rifrangere il suono e con la tribuna spettatori
in metallo, altro materiale poco consono all'acustica, oltre a essere una
trappola umana molto pericolosa. In questo modo non è possibile udire appieno la
voce dei cantanti se voltati dalla parte opposta rispetto alla posizione di
ascolto.
Jean-Luc Tingaud, esperto del repertorio francese, dirige
con cura la brava Orchestra Donizetti Opera. Il gesto è
elegante e in questa maniera si muove lungo la partitura, mantenendosi saldo su
quel carattere romantico - parigino - che contraddistingue il lavoro del
compositore bergamasco di quegli anni.
Assolutamente stupendo il Coro Donizetti Opera guidato da
Fabio Tartari che, in questa occasione particolarmente
ispirata, rende una prova egregiamente riuscita.
Lidiia Fridman è una Sylvia gradevole, ma molto
lontana dal poter essere un'interprete di riferimento. La vocalità è poco
consistente, il fraseggio e l'accento sono abbastanza ridotti, i colori sono
piuttosto poveri, gli acuti un po' tirati e la dizione non è delle più corrette.
Contrariamente il Leone di Konu Kim è una
piacevolissima scoperta. Generoso e squillante, ben timbrato, capace di
cromatismi raffinati, acuti brillanti, mezze voci delicate e ottimo francese.
Florian Sempey, nei panni del Re, riconferma le sue
doti di belcantista. La sua linea di canto è sempre ben omogenea e i suoi acuti
luminosi sono una garanzia.
Molto bene anche per il Don Gaspar di Roberto Lorenzi,
che giustamente sottolinea un fraseggio da intrigante faccendiere piuttosto che
da buffo.
Decisamente positiva anche la prova di Federico Benetti nel
saio del Superiore, alquanto corretto seppur non tonante e autorevole
come ci si aspetterebbe.
Successo importante e meritato per tutti. Una vera festa.
|