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Recensione Le Trouvere di Giuseppe Verdi al Festival Verdiano di Parma

William Fratti, 18/10/2018

In breve:
Parma - Recensione dell'opera lirica Le Trouvére di Giuseppe Verdi in scena al Teatro Farnese di Parma il 4 ottobre 2018.


Il Festival Verdi 2018 è l'edizione delle conferme, dalla rinnovata buona qualità delle produzioni all'attenzione alla ricerca; una rassegna che, dopo anni di tentennamenti, sta diventando un vero Festival.

Di indubbio interesse - artistico, culturale, musicale, storico, ma anche semplicemente di curiosità melomaniacale e turistica - è l'attenzione per il Verdi francese, prima con l'edizione critica di Jérusalem, ora con quella di Le Trouvère.

In tal senso per il prossimo anno è prevista una battuta di arresto - già annunciati sono i titoli de I due Foscari, Luisa Miller, Aida e Nabucco - ma si spera che tale filone possa essere proseguito nel futuro.

La versione francese de Il trovatore possiede un legame molto particolare con Parma, poiché fu l'opera inaugurale della prima edizione dell'allora Verdi Festival 90 - poi subito naufragato - già all'epoca eseguita nella revisione a cura di David Lawton per l'edizione critica. Non si tratta di una mera traduzione, bensì di una rielaborazione - fatta per mano del Cigno di Busseto - di otto dei quattordici numeri che compongono l'intera partitura, per meglio adattare la musica al gusto parigino dell'epoca.

Ci si trova dunque di fronte ad un melodramma un poco più elegante e leggermente meno acceso, sapientemente espresso dalla bacchetta di Roberto Abbado - neo direttore musicale del Festival - che descrive con raffinatezza il rinnovato stile dell'orchestrazione francese alla guida degli eccellenti complessi artistici del Teatro Comunale di Bologna.

Ottima anche la prova del Coro preparato da Andrea Faidutti.

Ma la vera parte del leone la fa lo spettacolo visionario di Robert Wilson che inserisce, nello spazio del tempo musicale, luci e movimenti che non fanno altro che generare interrogativi. “Il mio non è un teatro di messaggi. È un teatro di domande” ha affermato il celebre artista statunitense ed è una sensazione sinceramente appagante poter assistere ad una rappresentazione che incuriosisce senza rinchiudersi in un ambito ristretto di risposte dettate da una vecchia mentalità tradizionalista. I simboli, le figure, le metafore sono molteplici, ma non vogliono dare opinioni o visioni, bensì creare quesiti e indurre all'osservazione, partendo dal presupposto che, seppur la storia sia una, attraverso la musica la sua interpretazione può esserne molto discosta.

Ne risulta dunque uno spettacolo elegante, accurato, studiato nei minimi particolari, che affiancato alla pregevole lettura di Abbado può essere sinceramente considerato un capolavoro artistico e come tale purtroppo soggetto alla contestazione e all'incomprensione.

Un passo in avanti, per mantenere il medesimo livello qualitativo delle produzioni, andrebbe compiuto anche in termini vocali, poiché il Festival dovrebbe diventare anche il punto di riferimento dell'interpretazione verdiana.

Giuseppe Gipali è un Manrique discreto, canta correttamente senza intoppi né sbavature, anche se non arriva mai a brillare come ci si aspetterebbe dal protagonista.

Roberta Mantegna è una Léonore sicura nell'interpretazione e nella zona centrale, ma continua a possedere qualche problemino negli acuti più estremi che deve assolutamente risolvere prima che si creino danni permanenti.

Nino Surguladze è una Azucena elegante e raffinata, morbida e omogenea, dalla voce vellutata sempre piegata ai voleri dell'interpretazione.

Franco Vassallo è un Comte de Luna ben saldo, dalla vocalità smaltata e dotato di un ottimo fraseggio.

Marco Spotti è un Fernand inamovibile, la dura roccia di tutto lo spettacolo, eccellente nella sua aria di sortita.

Completano il cast Tonia Langella nei panni di Inès, Luca Casalin in quelli di Ruiz e del messaggero, Nicolò Donini in quelli del vecchio zigaro.

 
 
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