Al Belvedere San Leucio di Caserta, nell'ambito della
Rassegna “Un'Estate da RE” è andata in scena una esecuzione memorabile della
Cavalleria Rusticana. Opera somma che rivoluzionò la cultura
dell'opera lirica e permise all'Italia del Sud la rivincita nel teatro lirico.
Negli anni immediatamente successivi alla sua prima, altri drammi di passione e
di sangue, di ambiente popolare e forti caratterizzazioni regionali, invasero la
scena operistica, a dimostrazione che le frontiere del giovane Regno d'Italia
includevano anche un mondo sofferente e tenuto drammaticamente lontano dal
progetto di sviluppo che investiva il Nord della penisola.
Con Mala vita
di Umberto Giordano; con i Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, con Cavalleria
rusticana di Pietro Mascagni l'Italia del Sud ancora povera e semianalfabeta si
erse sul palcoscenico nobile dell'Opera e fece sentire la sua presenza a lungo
elusa.
Cavalleria
esordì al Costanzi di Roma nel 1890 e fu subito successo. Il soggetto
drammatico, la sua passionalità accesa, l'ambiente popolare, una religiosità
superstiziosa, le masse contadine quali interpreti, rivelarono al teatro lirico
la verità ignorata di una classe di contadini dai sentimenti violenti come
l'onore offeso, la gelosia, il tradimento, la sfida vendicatrice, la
superstizione. Di Mascagni, dovettero impressionare la vena di canto imponente
nella sua irruenta spontaneità, l'impiego delle voci, la presenza di un popolo
in scena, gli ampi squarci sinfonici.
Ma pur con questi aspetti
innovativi, va riconosciuto che Cavalleria poggia su un impianto che non rompe
con la tradizione. In essa Mascagni adotta romanze, duetti, concertati e una
distribuzione dei ruoli vocali, secondo la più fedele tradizione del melodramma
romantico. E fedele a tale tradizione l'Opera si apre con un preludio
strumentale e con un coro d'introduzione, seppure, interrotto dall'irrompere
della ventata di accesa passionalità della Siciliana di Turiddu.
L'originalità di Mascagni si coglie anche quando recupera le forme chiuse
della tradizione. Solo quando la vicenda drammatica richiede l'inserimento di
una canzone, compone diffusamente “musica di scena” quali la sortita di
Alfio, lo stornello di Lola, il brindisi di Turiddu. Con l'inserimento
di questi canti, si compie l'adesione al principio della “verità”, che
l'estetica verista trasmette a una forma non-verista come l'opera lirica,
avviandone la radicale trasformazione verso il dramma musicale. Ma quanti
decretarono il trionfo di Cavalleria, forse, non furono colpiti dalle novità
stilistiche e formali. Ciò che più li trascinò fu quel senso di “aria aperta”,
di Sicilia ripresa dal vivo, ricorrente nella partitura, o forse furono
quell'inedito clima paesano ricreato con canti d'impronta popolare e il sensuale
empito melodico che si espande dagli interventi solistici ai cori e alle ampie
pagine sinfoniche, come il coinvolgente “Intermezzo“.
Degli artisti
all'opera a San Leucio, è giusto che il primo apprezzamento vada al Mº
Francesco Ivan Ciampa, alla guida dell'Orchestra del Verdi di
Salerno. Ogni singolo suono, ogni gesto, ogni intenzione, era
soppesato. Costante era la ricerca di capire il volere e rispettare il dettato
del compositore, di rendere il rapporto tra i colori, le fioriture, le pause, le
dinamiche, le scelte timbriche dei suoni e loro significati, sempre nitido e
comprensibile.
A tale magistero di direzione si deve la potenza evocativa
e il grande afflato lirico colti nella religiosa esecuzione dell'Intermezzo
sinfonico così intenso e struggente.
Tra gli
interpreti, il primato va doverosamente riconosciuto ad Amarilli Nizza
(Santuzza), al suo debutto nel ruolo. Sola, impoverita, sedotta e
abbandonata, Santuzza, emersa dalla folla di donne in festa per la
Pasqua, sente il dolente peso del suo peccato autodefinendosi dannata,
scomunicata, eppure disposta al perdono pietoso. Ma il suo peccato è la sua
discesa agli Inferi. Vestita a lutto, al lutto eterno della dannazione, percorre
tutte le tappe di una pagana via Crucis scandita dai tintinnii delle campane
della messa di Pasqua, fino alla inevitabile abiezione della scellerata vendetta
consumata consegnando al carnefice la vittima predestinata e in fondo
consegnando sé stessa. La interpretazione di un tale personaggio, profondamente
umano e intimamente religioso, esige da parte dell'interprete un corredo di
mezzi eccelsi. Immedesimazione negli anfratti della spiritualità del
personaggio, una naturale propensione alla recitazione si che ogni parola anche
non cantata, abbia potenza comunicativa, una voce capace di dare verità alla
implorazione come alla invettiva, alla supplica come alla vendetta, alla
preghiera come alla maledizione. Amarilli Nizza è stata tutto
questo con un dominio della frase musicale pari al dominio della frase
letteraria, come la celebre Voi lo sapete o mamma, poesia pura in versi
a rima baciata. Completa in tutto, il soprano raggiunge la difficilissima chiusa
dell'unico duetto con Turiddu: A te la Mala Pasqua. Spergiuro.
Brevissima chiusa, in cui tutta la rabbia, tutto il dolore, tutta l'ansia di
vendetta, sprizzano violenti dal cuore di Santuzza e sono scagliati tra
lacrime e singhiozzi contro lo spergiuro Turiddu.
Diego
Cavazzin era Turiddu. L'uomo è solo. Solo di fronte ad
Alfio cupo e feroce nella sete di vendetta. Solo di fronte a Santuzza
ossessa dal suo stato di sedotta e abbandonata in un ambiente incapace di
coglierne il dolore immenso. Solo di fronte a Lola, personaggio incapace di
amare e di avere pietà. Vittima predestinata e sacrificale della Pasqua di
sangue, sarà sgozzato come agnello di un rito feroce di espiazione e liberazione
collettive. A Turiddu sono affidate tre arie di intensa portata: la
Siciliana d'ingresso, l'invito al brindisi e l'Addio alla
mamma. Il canto c'è. Ma la dolcezza, l'afflato, il rimorso, il presagio
triste della morte, sono sensazioni illeggibili nel suo fraseggio, nei passaggi
di tonalità, nella gestualità.
Alfio era Alberto
Mastromarino. Nella sua ricchezza è il simbolo e il dominus del
villaggio che non può subire oltraggi. Simbolo della violenza e della vendetta
quale lavacro dell'offesa, è spavaldo, aggressivo, impietoso. Cupo. La voce
baritonale di Mastromarino si adegua a tale ruolo e lo esalta.
Convincente la sua interpretazione e nobile nella sua tragicità il rifiuto con
cui all'invito di Turiddu risponde: Il vostro vino non l'accetto, che
anticipa la sfida rusticana.
Lola era Patrizia Porzio,
la quale canta correttamente il suo stornello Fior di giaggiolo, ma
senza grazia, assolutamente immune dalle diatribe sentimentali di cui è causa e
vittima.
Mamma Lucia era Elena Traversi. Mamma
Lucia canta poco ma recita molto. E nella diversità di gesti e atteggiamenti nei
confronti di Santuzza che pur non essendo figlia, la chiama mamma, e nei
confronti del figlio Turiddu, per il quale rappresenta l'unico legame,
sa essere Mamma che con gesti lenti e solenni. Si commuove, rimane in ascolto,
sa tacere e piangere con una verità quasi scolpita.
Ineccepibile il coro
diretto dal Mº Francesco Aliberti.
Encomiabile la
regia di Riccardo Canessa, che negli spazi ridotti di un
palcoscenico allestito allo scopo, ha saputo far muovere masse di uomini e donne
e far recitare gli interpreti principali. Il pubblico ha reagito con applausi
anche a scena aperta, e con la giusta richiesta di bissare l'Intermezzo,
momento apicale di tutta la rappresentazione.
|