Al Teatro Petruzzelli di Bari è andata in scena una
rappresentazione di AIDA che lontana dagli stereotipi
tradizionali dell'opera ne legittima una interpretazione inedita.
La scena essenziale nel ricreare le ambientazioni del tempo dei Faraoni,
l'assenza di colori solari e sgargianti, la mancanza di sedie gestatorie, di
sontuose vesti regali o sacerdotali, di qualunque orpello che riportasse alla
memoria i segni del potere, una scena del trionfo nella quale il trionfatore è
appena intravisto, tutto lascia immaginare che la guerra non sia una guerra tra
popoli, ma un conflitto assai diverso nella genesi seppure identico negli
effetti.
Il conflitto tra due diversi sentimenti di amore: l'amore umano, per un uomo
e l'amore sacro, incontaminato e puro per la Patria. Sentimenti d'amore diversi
che generano tuttavia in Aida patimenti non diversi. È lei che soffre
per tutta la durata dell'opera. È lei l'eroina immolata per aver amato. È lei
che dopo aver ascoltato la blasfema invocazione alla guerra contro il suo popolo
e l'augurio che vincitore sia l‘uomo che ama, subisce la beffa della sua rivale
con la falsa notizia che costui è morto. È lei che subisce l'amara e feroce
invettiva del padre che la rinnega. È lei che si offre alla morte tante volte
invocata quale ristoro al suo soffrir per un amore tremendo e fatal. È infine
lei che entrata furtiva nella tomba di Radamés, tra il triste tripudio
dei sacerdoti, vede il ciel dischiudersi. La Morte desiderata per
l'impossibilità di amare la Patria e il suo vincitore; la Morte affrontata con
l'uomo amato seppure disonorato e condannato per alto tradimento, sancisce il
trionfo di Aida.
È nella vittoria dell'Amor patrio sull'Amore terreno il vero trionfo in
AIDA.
Qualunque sia la lettura, il ruolo di Aida esige una interprete di
consumata esperienza, nel fulgore dei suoi mezzi vocali, perfetta nella
complessa azione scenica che la coinvolge nei rapporti col padre, con la rivale
in amore, con l'uomo amato, con tutto il mondo intimo in cui si accavallano
nostalgie di fanciulla, tremori di catastrofi e sogni di estasi beate.
E se questa è la sovrana poesia di AIDA, la personificazione del soprano
russo Taisiya ERMOLAEVA è apparsa assai carente. Statica sulla
scena, priva il personaggio di tutta la mobilità necessaria a rendere visibile i
complessi stati d'animo della protagonista e a essere tale anche quanto non
canta. La Ermolaeva entra ed esce dal personaggio in funzione del suo
coinvolgimento nel canto. Canto che è solo una successione di arie, concertati,
duetti, forme musicali chiuse ma senza alcuna concatenazione, mancando la quale
la interpretazione diventa inadeguata a dare verità scenica a una fanciulla
stretta tra l'inganno e il tradimento, la fedeltà e la rinuncia. L'acuto le è
quasi estraneo fino al dileggio della frase finale della romanza Cieli
azzurri cantata con un abbassamento di tonalità per essere conclusa. I
piano, concepiti come esplorazione delle infinite modulazioni dell'animo al
mutare degli eventi esterni, in lei sono quasi del tutto inesistenti. Il suo
respiro è lontano dal saper esprimere l'angosciosa scoperta della iniquità degli
uomini e degli eventi, e dal trasmettere l'intima sofferenza al pensiero di dare
l'addio ai cieli azzurri della sua terra, l'infinita amarezza di fronte alla
invettiva del padre e la intensità del dolore provato Ah! Pietà, pietà,
pietà. Padre, a costoro schiava io non sono…- e infine il dolore di un
amore da dimenticare per l'amore più grande e solenne per la patria: O
patria! O patria quanto mi costi!
L'interpretazione di Alessandra Volpe (Amneris)
illumina invece il personaggio elevandolo a simbolo della frequente impotenza
del Potere. Amneris figlia del Faraone, vissuta negli agi, circondata dalla
servitù delle ancelle, fiera di una assidua frequentazione con la casta dei
Sacerdoti, crede che il suo Potere le possa consentire tutto. Nel suo amore per
Radamés è forte, prepotente, furba, subdola. Di fronte al fallimento delle sue
voluttuose aspirazioni, di fronte alla verificata inutilità del suo Potere di
figlia del Faraone, in preda a un furore rabbioso non le rimane che la violenta
invettiva contro gli stessi Sacerdoti, di cui aveva cercato l'alleanza. Ma alla
fine è perdente. Con lo sguardo a Radamés Amneris
esordisce con narcisismo, superbia e alterigia, ostenta la superiorità della sua
condizione sociale, il possesso di un aspetto bramato da contrapporre alla
celestialità di Aida: Degna di invidia quanto saria la donna il cui bramato
aspetto tanta luce di gaudio in te destasse! Nel Duetto del II Atto per due
volte invoca Vieni, amor mio, mi inebria... frase eloquente nel
descrivere la principessa in preda a un insidioso furore erotico. Un furore che
sfocia in una gelosia così torbida da sfociare a sua volta in un dialogo
violento, denso di frasi morbide che occultano falsità e inganni. È un canto che
le sale dalle viscere ed esprime le furie di odio e di vendette che la animano.
Sdraiata sul suo triclinio la Volpe irradiava gioia con un
canto pieno, carnoso, lussureggiante, prima di scatenarsi nel duetto con
Aida, duetto che percorre con la totale gamma della sua espressività, dalla
finta pietà alla sfida aperta, fino al trionfo: Meco o schiava assisterai,
…. io sul trono accanto al Re. La voce ruggiva. Pareva tigre spietata,
pronta a divorare chi aveva osato sbarrarle la strada nella illusione di poter
competere con la figlia del Faraone. La voce rotonda irradiava tutta la sua
protervia, pur sapendosi fare melense, velarsi di perfidia, in un astuto gioco
di slanci, con sonorità piene e con un senso incantevole della parola scenica.
Nel Concertato del II Atto con una fascinosa potenza di voce, con la veemenza
del canto, Alessandra Volpe affrescava l'immagine di un Egitto
oppressivo, invincibile. E con tanta veemenza esprimeva la voluttà del possesso,
l'affermazione di una incontestabile preminenza. Con tanta dovizia di mezzi
la cantante ha saputo esternare l'abbattimento e la disperazione che avverte nel
I Quadro del IV Atto. La declamazione de L'aborrita rivale a me sfuggia
era scolpita a tutto tondo, in un gioco di tinte e di spessori, fino
all'incontro con Radamès. Poi la voce si raccoglieva nella cantabilità di
Già i sacerdoti adunansi, per esplodere irrefrenabile nel Morire!
Ah!... tu dèi vivere che con il procedere si accentua e si fa grandiosa.
Nell'angoscioso processo che segue, irrompe l'anatema contro i Sacerdoti Voi
la terra ed i Numi oltraggiate e La vendetta del ciel, scenderà!
Anatema su voi! scagliato da Alessandra Volpe con voce sana e salda,
rotonda, sostenuta da un fraseggio protervo, superbo, dal bel colore denso,
vivificato da uno slancio impetuoso che dava ai suoni gravi la giusta cupezza di
un meraviglioso mezzosoprano. Nella finale implorazione alla Pace, la
voce definitivamente placata come l'anima, depurata da ogni boria, conscia della
impotenza del Potere, trovava invece un colore ambrato, un'intensità diversa, un
raccoglimento pacato che sfumava nel silenzio meditativo. E la voce della
Volpe con naturalezza e semplicità si faceva ombra, che inghiottiva la luce.
Radamès era Sung Kyu PARK. Anche l'intera vicenda del
condottiero legittima l'idea che il vero conflitto sia quello tra l'Amor patrio
e l'Amore carnale. Radamès innamorato di Aida forma divina, e
non la incontra mai in un duetto d'amore e vive nell'attesa che si avveri il suo
sogno di vittoria da dedicarle. Il primo incontro avviene dopo quello doloroso
di Aida col padre cui promette di essere degna della sua patria
scoprendo attraverso Radamés il sentiero che il nemico etiope seguirà.
In quell'incontro Radamés cede alle sollecitazioni di Aida,
rivela il passaggio segreto, si scopre disonorato. Immensamente dolente il grido
Io son disonorato! …/ Per te tradii la patria! È l'affermazione
inoppugnabile che tradir l'amor patrio per un amore terreno, è disonore. Un
disonore così umiliante da imporre il rifiuto della fuga liberatrice con
Aida per consegnarsi alla giustizia: Sacerdote, io resto a te. La
performance vocale di Sung Kyu PARK è di rilievo, ma non
eccelsa. La sua voce è bella, dotata di acuti brillanti e penetranti prodotti
con naturalezza e senza apparente fatica. Tuttavia non è apparsa perfetta
nell'emissione, non chiara nella dizione, spoggiata nelle note acute, priva di
nobiltà, di eleganza ed espressività nel fraseggio. Ad ascoltarlo nel finale,
sotto la fatal pietra, v'è da chiedersi dove siano la voce morbida, il timbro
caldo e ricco, il modo interpretativo accattivante, la squisita levità dei
pianissimi e delle sfumature? Dov'è il canto generoso, denso di musicalità, che
fanno di Radamès uno dei personaggi più ardui della letteratura operistica?
Amonasro era Mansoo KIM, voce da baritono nobile,
con un fraseggio ben educato, ma scarsamente mobile scenicamente. Tuttavia nella
doppia figura di condottiero e di padre, ha saputo dosare la voce: docile e
implorante clemenza al Re nella frase Oggi percossi dal fato, mesta e dolente
nel racconto delle distruzioni della Guerra, e infine imperiosa nel rinnegare
Aida: dei Faraoni tu sei la schiava! frase con la quale rammenta alla
figlia che prima d'ogni altro amore c'è l'amore per la Patria.
Ramfis era Mariano BUCCINO. In possesso di una
imponente voce di basso, alle invocazioni al dio supremo egizio, il possente
Fthà, Nume, che del tuo spirito sei figlio e genitore assieme alla sacerdotessa
Marta Calcaterra, conferisce una sacralità biblica, mentre con
saggezza e preveggenza sa consigliare al re di trattenere in ostaggio con Aida
anche il padre al fine di garantire pace e sicurezza. Sontuoso e aristocratico
dalla voce piena, avvolgente, il suo Guerra! nella scena in cui la guerra è
deliberata ha la potenza e i guizzi di un fulmine cha annuncia la tempesta.
Il Re era George Andguladze. Il suo canto non
raggiunge la maestosità del sommo Sacerdote nel mostrare pietà e clemenza nei
confronti dei vinti. L'uno e l'altro rappresentano anche in AIDA il
potere temporale e quello spirituale, in qualche forma contrapposti. Poteri
forti ma troppo lontani dal conflitto delle due rivali in amore per Radamés.
Leon De La Guardia, era il messaggero, personaggio
la cui apparente marginalità quasi motiva un canto senza una espressività che ne
illustri il ruolo. E così è stato di De La Guardia, dal cui
messaggio dell'invasione dell'Egitto da parte degli Etiopi, delle loro
predatorie azioni e devastazioni, hanno inizio invece le invocazioni al dio Fthà
e poi la Guerra.
Nella messa in scena ben curata da Mauro Carosi,
l'orchestrazione del Mº Gianpaolo Bisanti è stata luminosa e
illuminante. Sotto la sua direzione tutta l'orchestra densa di impasti
strumentali ha ricreato le infinite atmosfere e i complessi conflitti
dell'opera. Il ballabile che segue la marcia del trionfo, un ballabile in cui lo
squillo maestoso, i guizzi repentini e acrobatici dell'ottavino, descrivono con
una pittorica calligrafia l'esultanza che accompagna ogni vittoria. Non musica
di accompagnamento dunque, ma autentica creazione di ambienti naturali, come il
tranquillo ruscellare del Nilo, o di stati d'animo, come l'esultanza del popolo
nella Stretta Finale del II Atto, o la cupa atmosfera della Scena I dell'Atto IV
dominata dal disperato tentativo di Amneris nunzia di perdono e di vita di
conquistare l'amore di Radamés e di salvarlo dalla morte, purché riconosca la
sua colpa. Diretta da Gianpaolo Bisanti, nell'unico duetto con Radamés, la
Volpe raggiunge un risultato drammatico perfetto. Se il
direttore, forte di un'orchestra formidabile, scatenava le sonorità, lasciava
cadere un diluvio di musica, un diluvio che era la rivelazione del dramma, un
modo tutto e solo musicale per mettere a nudo la crudeltà di un potere che non
conosce pietà, la Volpe, sollecitata e guidata da tale bacchetta, rispondeva con
pari veemenza. La voce sovrastava, la linea melodica si snodava compatta, la
sala del Teatro Petruzzelli era come inondata da una sorta di cascata sonora.
Era uno scontro, una guerra tra voce e orchestra, l'ultima lotta prima che, dopo
avere lanciato l'anatema, la principessa cadesse a terra, mentre Bisanti
scatenava sonorità telluriche seguite dall'ovazione di un pubblico trascinato al
delirio.
Identica riflessione per il duetto finale nella fatal tomba. L'energica
incisività e la sapienza con cui tutta l'orchestra è messa al servizio dei
tratti dominanti dell'opera, rinviano a un magistero capace di descrivere
ambienti esotici lontani nel tempo, così come affetti e invocazioni, dolori e
disonori, esultanze e addii, che appartengono invece a ogni tempo. Così il vero
trionfo è nel raffinato finale dell'opera, nel quale i lugubri tocchi delle
casse annunciano la morte e il lento tremolio dei violini il volo verso l'eterno
delle due anime ormai congiunte per sempre!
Gradevole seppure di difficile lettura la regia di Joseph Franconi
Lee, cui va il merito di aver sottratto l'opera agli stilemi
tradizionali, fuori dalla inopportuna sontuosità dei vincitori, e averla
concentrata nella intimità dei protagonisti combattuti tra la dedizione e
l'amore per la Patria e l'Amore terreno, pur conservando nei costumi raffinati e
cangianti soprattutto di Amneris, e nella architettura generale, l'ambientazione
del tempo dei Faraoni.
Coerente con l'impostazione registica la prestazione del coro diretto dal
Mº Fabrizio Cassi. Nell'AIDA il coro è di volta in volta il
popolo che inneggia all'Egitto, è la casta impietosa dei sacerdoti che invoca
morte per le ciurme feroci dei nemici della patria, è la voce delle schiave e
dei prigionieri che implorano pietà e clemenza. Il coro è l'esemplificazione
delle tante sfumature dello spirito umano che si manifesta nelle forme più
diverse e con le invocazioni più blasfeme ma sempre con la intensità di un
sentimento unico e condiviso.
Il Mº Cassi con sovrana bellezza e con una adesione rigorosa
alla parola e allo specifico ruolo fa cantare ogni momento: le invocazioni al
dio supremo, l'esultanza per la vittoria, la pietà nella implorazione, la forma
ieratica dei Sacerdoti del potere.
Coinvolgente infine nella Stretta finale dell'Atto II Gloria all'Egitto, ad
Iside/Che il sacro suol difende.
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