Dopo i buoni esiti dello scorsa e rinnovata stagione, anche quest'anno la
Fondazione Donizetti ce la mette tutta per mantenere alto il
livello qualitativo delle proposte, di cui Rosmonda d'Inghilterra
rappresenta l'apice.
Come già scritto a ottobre in occasione delle recite fiorentine il
melodramma, che è stato riesumato dal suo lungo e ingiustificato oblio solo
negli anni Settanta a Londra e Belfast per poi ricomparire un ventennio più
tardi in una registrazione di Opera Rara, è stata oggetto di una revisione
critica sull'autografo a cura di Alberto Sonzogni per la
Fondazione Donizetti di Bergamo.
Eseguita in forma di concerto all'Opera di Firenze per la
prima volta in Italia in tempi moderni è ora allestita sul palcoscenico
bergamasco in uno spettacolo ideato da Paolo Rota, con scene e
luci di Nicolas Bovey e costumi di Massimo Cantini
Parrini.
L'impianto semplice, minimalista e suggestivo lascerebbe spazio allo sviluppo
psicologico dei personaggi se non fosse per il grande vuoto che crea noia e
monotonia. La gestualità degli interpreti è spesso assimilabile al solo estro
degli artisti; le controscene che dovrebbero riempire, spiegare, sottolineare,
anticipare, sono davvero troppo poche. Non si può dire che lo spettacolo non sia
riuscito, ma lo si potrebbe definire soltanto un abbozzo.
Discreta la prova dell'Orchestra Donizetti Opera e del
Coro diretto da Fabio Tartari, entrambi composti da ottimi
professionisti, ma che per funzionare al meglio avrebbero bisogno di maggior
compattezza. Così come a Firenze la bacchetta è nelle mani di Sebastiano Rolli,
sempre eccellente nello stile, ma ancora avaro d'accenti.
Protagonista è sempre Jessica Pratt, una delle migliori
interpreti del belcanto italiano che, rispetto alle esecuzioni concertistiche,
perde un poco di cristallo nei sovracuti. Ottimi i colori e le sfumature del
personaggio.
Si riconferma raffinatissima maestra di eleganza la Leonora di
Eva Mei, che addirittura riesce a migliorare nei fraseggi e nelle tinte
drammatiche, mantenute sempre uniformi alla linea di canto, con suoni bassi
sempre misti, mai di petto, onde preservare l'impeccabile stile belcantista,
reso con gusto e classe impareggiabile.
Dario Schmunck è un Enrico II efficace solo a
tratti. La vocalità è talvolta brillante e squillante, talaltra stimbrata, non
riuscendo dunque a trasmettere un senso di continuità.
Nicola Ulivieri è un Clifford sempre elegante,
abile fraseggiatore, ottimo interprete nella vocalità, nelle sfumature, nello
stile e nella recitazione.
Ancora una volta perfetto è l'Arturo di Raffaella Lupinacci,
che trova terreno particolarmente fertile in questo tipo di ruoli di cui abbonda
il romanticismo italiano, con la speranza di riascoltarla presto.
|