Dopo una breve assenza durata solo un paio di edizioni, il Festival
Verdi torna a far vivere la prestigiosa cornice del Teatro
Farnese, gioiello ligneo dell'architettura barocca unico al mondo.
Nelle precedenti occasioni si erano riscontrati, come previsto, diversi
problemi di acustica dovuti soprattutto alla conformazione del pavimento e alla
mancanza della copertura del sottotetto, andato perduto. Ma quest'anno è stata
apportata una eccellente miglioria: le gradinate - scomode e alquanto pericolose
per il pubblico - sono diventate la scenografia naturale dello spettacolo; una
piccola porzione della platea è stata adibita a golfo mistico, con l'aggiunta di
una pedana che funge da palcoscenico; sulla restante parte della platea e del
palcoscenico originale è stata costruita una struttura in legno che non solo
ospita gli spettatori più comodamente, ma funge da cassa di risonanza e migliora
l'acustica. È un vero peccato che non si sia pensato anche di appendere dei
pannelli in legno fonorifrangenti laddove si sono posizionate le americane,
poiché ciò avrebbe ulteriormente contribuito a un più valido risultato.
Lo spettacolo di Saskia Boddeke e Peter Greenaway inizia nel
migliore dei modi: già dalla sinfonia i meravigliosi archi che sovrastano le
gradinate del Teatro Farnese si illuminano e si dipingono attraverso
videoproiezioni a cura di Elmer Leupen e Peter Wilms che
sembrano raccontare la musica di Giuseppe Verdi oltre alla
storia di Giovanna d'Arco.
Entrano il Coro e il Re Carlo VII e già si notano i primi
problemi: l'interprete in scena è goffo e impacciato, non certo perché incapace,
ma evidentemente lasciato a se stesso, nel vuoto assoluto, senza un gesto o uno
sguardo studiati a dovere. Lo stesso vale per il personaggio di Giovanna.
Poco dopo iniziano a crollare anche le proiezioni: ciò che sembrava essere
l'elemento vincente della messinscena si presenta come un'accozzaglia
eccessivamente eclettica di simboli e simbolismi che generano solo confusione.
Il lavoro di regia sui solisti rasenta il nulla e la coreografia di
Lara Guidetti, pur avendo un suo buon valore se considerata fine a se
stessa, è altro elemento fuorviante e ben difficile da comprendere, soprattutto
non trasmette emozioni in questo preciso contesto.
I costumi di Cornelia Doornekamp sono poco più di tuniche
bianche e le scene di Annette Mosk sono forse la pedana
circolare e dei cubi bianchi e neri che nel finale vengono montati per formare
una parete con una croce su di un lato.
Le luci sono di Floriaan Ganzevoort.
Come sempre ottima è la prova del Coro del Teatro Regio di Parma
guidato da Martino Faggiani, che qui si impone come vero
protagonista.
Molto buona anche l'esecuzione de I Virtuosi Italiani diretti da
Ramon Tebar, che mostra una mano salda e sicura, con una certa capacità
di fraseggiare. Alcuni accenti avrebbero potuto essere più marcati, ma ciò si
potrebbe imputare all'acustica della sala.
L'interpretazione scenica dei singoli personaggi, come già sottolineato, è da
considerarsi insufficiente, molto probabilmente a causa delle scelte di regia,
mentre il lavoro in termini vocali è da valutarsi molto bene.
Ci sono imprecisioni e passaggi da correggere e migliorare, ma si tratta pur
sempre di una prova.
Vittoria Yeo dimostra di possedere un bel timbro, che pare
particolarmente adatto al ruolo di Giovanna e a questo tipo di
repertorio; soprattutto il suono è molto ben proiettato e corre ovunque.
Molto piacevoli sono lo smalto e la pastosità di Luciano Ganci
nei panni di Carlo.
Sempre ottimo il fraseggio di Vittorio Vitelli che qui veste
i panni di Giacomo.
Pure efficaci il Delil di Gabriele Mangione e il
Talbot di Luciano Leoni.
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