Dopo il grande successo avuto sul palcoscenico di Torino, il Faust di
Charles Gounod nello spettacolo di Stefano Poda è
messo in scena all'Opéra de Lausanne con addirittura maggior
cura e dettaglio, e la visione estremamente poetica del regista italiano
acquisisce ulteriori significati filosofici, che trovano nel coro celeste del
finale una liberazione catartica dell'anima di Faust, piuttosto
che di quella di Marguerite, come se l'intera vicenda fosse solo un
sogno delirante del vecchio dottore, disposto a vendere l'anima al demonio per
un pugno di emozioni, ma che in effetti sembra vivere solo nei meandri della sua
mente malata.
La direzione musicale di Jean-Yves Ossonce è particolarmente
sentita, intensa e vibrante e ciò lo si nota fin dall'ouverture ricca di colori
brillantissimi che impreziosiscono tutta l'opera senza soluzione di continuità.
L'Orchestre de Chambre de Lausanne lo segue perfettamente
prodigandosi in suoni limpidi e puliti, addirittura maestosi dove occorre, pur
non essendo particolarmente numerosa.
Strabiliante il Choeur de l'Opéra de Lausanne, diretto per
la prima volta dal bravo Marcel Seminara, che canta Gounod con
la disinvoltura che si riserva al repertorio di frequentazione quotidiana.
Altro debutto a Losanna, oltreché nel difficile ruolo del titolo, è quello di
Paolo Fanale che, ogni volta che compie un ulteriore passo
nella sua carriera, continua a sorprendere per l'intelligenza delle scelte
musicali: la sua voce è grazia pura, usata con classe ed eleganza. Già nei primi
due atti il bravo tenore dispiega la sua morbidezza lungo una linea di canto
omogenea e impeccabile, ricca di sfumature e cromatismi che rendono il suo
fraseggio particolarmente emozionante, eccellente nell'uso delle mezze voci, che
sono reali, tenute sul fiato, mai emesse in falsetto, che sfociano in un
entusiasmante “Je t'aime” eseguito in pianissimo così come scritto
sullo spartito e come ben pochi altri artisti sanno fare. L'intonazione perfetta
e le finezze più sottili e delicate lo portano ad interpretare un'intensissima
“Salut! Demeure chaste et pure” che poi trova una vera apoteosi nel
terzetto finale.
Maria Katzarava resta una cantante approssimativa e
imprecisa come già notato in precedenti occasioni. La sua vocalità e la sua
presenza scenica sono piuttosto ineleganti, di poco gusto e nel ruolo di
Marguerite è quasi ridicola, poiché in terzo atto sembra recitare nel
teatro comico anziché in un dramma. In molti passaggi pare che i suoni non siano
in maschera o che prendano delle posizioni a caso, ed è dunque costretta a
parlare invece di cantare; talvolta è stonata; nei pezzi d'assieme urla a
dismisura; le poche agilità che occorrono alla parte sono pasticciate e nella
celebre aria dei gioielli deve addirittura inserire delle H aspirate in “C'est
la fi-hi-hi-hi-hille d'un roi”.
Kenneth Kellog è un buon Méphisto, dotato di un
fraseggio drammatico piuttosto eloquente che ha il sapore del demoniaco,
autorevole come un dio del male in “Le veau d'or”. Peccato che la gola
tenda a chiuderglisi quando sale troppo in acuto e che alcune note basse non
siano propriamente salde.
Toccante il Valentin di Régis Mengus, dotato di
vocalità brillantissima, quasi tenorile, ma ben dosata nei gravi e soprattutto
provvista di una buona musicalità.
Carine Séchaye ha una vocalità molto particolare,
piacevolmente ibrida, e pare perfetta per il ruolo di Siebel che esegue con
ottima cura, particolare attenzione al suono e con un'interpretazione efficace.
Buona anche l'esecuzione di Marthe da parte di Marina Viotti.
È invece meno adeguato il Wagner di Benoît Capt.
Grande successo per tutti gli interpreti al termine dello spettacolo ed è un
vero peccato notare come in molti, anzi troppi, non sappiano distinguere il bel
canto dal mal canto, ma di ciò si può solo incolpare la mala educazione
all'arte, alla musica e alla cultura in generale.
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