Il Teatro Comunale di Bologna inaugura la Stagione
2016 con un'eccellente nuova produzione di Attila, una
delle opere più belle degli anni di galera del giovane Verdi.
La parte del leone la fa il direttore musicale Michele Mariotti
alla guida della sua bravissima orchestra. Il suo modo, il suo stile nel
dirigere il primo Verdi è sinceramente entusiasmante, intriso di colori
belcantistici, accenti drammatici, sfumature che bilanciano perfettamente musica
e teatro, sempre a favore degli interpreti sul palcoscenico. Ed è così, anche
grazie alla diligenza dell'ottimo coro preparato da Andrea Faidutti, che pagine
semplici come l'apertura del dramma “Urli, rapine, gemiti” diventano
momenti galvanizzanti ed eccitanti. Ma la pagina corale dove è impossibile
restare impassibili è la scena dei profughi, toccante e commovente, altro
momento in cui il Coro del Teatro Comunale di Bologna non perde occasione per
primeggiare.
Ildebrando D'Arcangelo, al suo debutto nel ruolo, è un
Attila mastodontico, autorevole, regale, così elegante che i barbari
sembrano i romani, non gli unni. La provenienza dal repertorio belcantistico
favorisce l'esecuzione vocale in termini tecnici, cui si aggiungono una presenza
scenica da gigante del palcoscenico, un fraseggio particolarmente espressivo e
un'indubbia capacità d'accento. La gran scena e finale di primo atto hanno uno
spessore davvero enorme; addirittura la cabaletta mostra facilità e morbidezza
nell'arrivo al fa acuto, con agilità sgranate naturalmente, che la platea si
infiamma e richiede il bis, fortunatamente concesso.
Altra debuttante è Maria José Siri nei panni della guerriera
Odabella. Come già notato in precedenti occasioni, il soprano ha tutte
le carte in regola per primeggiare - del resto i calorosi consensi del pubblico
dimostrano che piace - ma non convince mai fino in fondo, come se smettesse di
studiare una parte una volta arrivata al novanta percento, senza scavare ancora
più a fondo cercando quel fraseggio, quel colore, quell'accento, quella
sfumatura, quel suono che potrebbero fare la differenza.
Foresto è l'indiscutibile tenore verdiano per eccellenza del
momento. Fabio Sartori, come di sua consuetudine, si presenta
con una valanga di voce squillante che in questa occasione, più che mai, si
diletta nello smorzare, nell'esplorare cromatismi e nel dipingere tinte più
variegate, chiudendo addirittura la bellissima aria alla maniera di Bergonzi in
pianissimo.
L'indisposto Simone Piazzola è sostituito da Gezim
Myshketa, altro bravo cantante, ma che, trovandosi a sostituire un
collega ha presentato alcune difficoltà nel legato, che rende il canto
discontinuo e disomogeneo. Il materiale vocale resta comunque degno di nota e
tutte queste “prove” lo renderanno certamente migliore in futuro.
Il giovane Antonio Di Matteo ha compiuto passi da gigante
rispetto a un anno fa, quando si notavano le buone doti, ma con qualche
incertezza. Oggi, nei panni del grave Leone, convince pienamente.
Efficace l'Uldino di Gianluca Floris.
Quanto allo spettacolo di Daniele Abbado, con scene e luci
di Gianni Carluccio e costumi dello stesso Carluccio
e di Daniela Cernigliaro, se inizialmente sembra senza infamia
e senza lode, un poco scopiazzato da Pelléas
et Mélisande, col procedere della vicenda prende corpo, anzi,
stimola pensieri e riflessioni.
Se lo spazio dell'opera di Debussy aveva un senso molto
logico, direttamente connesso sia al dramma teatrale sia al dramma musicale, lo
spazio di Attila, inizialmente vuoto, tende a riempirsi di
concetti che vanno ben oltre l'episodio storico e le trasposizioni
risorgimentali.
Dunque il re degli unni può diventare un qualunque dissidente militante,
mentre Ezio un generale disertore ed in questo modo l'attualizzazione è
fatta: ancora una volta Giuseppe Verdi, con l'aiuto di un
valido regista, regala al suo pubblico musica, teatro e ideali, quegli ideali
che hanno reso libera l'Italia dal giogo straniero, quegli ideali che ancora
oggi infiammano il cuore di molti popoli imprigionati nella loro terra.
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