Andare oggi all'opera, oltre a ciò che accade in ambito musicale e canoro,
significa scontrarsi o incontrarsi con spettacoli più o meno adeguati alla
filologia del libretto, al volere del compositore, piuttosto che al desiderio
moderno o tradizionalista del regista.
I melomani più agguerriti anelano sempre ad allestimenti classici, i giovani
attivi in ambito culturale prediligono trasposizioni contemporanee, ma ciò che è
davvero importante è che qualsivoglia decisione di regia, scenografia e
coreografia, non stravolga l'azione, non disturbi musica e canto, ma serva da
filo conduttore, possibilmente da miccia all'effetto esplosivo di quanto già
insito in partitura.
Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi è uno dei melodrammi
più facili da reinterpretare, sia per la natura della vicenda, sia per i
sentimenti umani e politici di cui si narra, sia per il tacito benestare del
compositore stesso che, non potendo andare in scena con la trama originale -
l'omicidio di Re Gustavo III di Svezia - non si è minimamente scomposto nel
dover trovare altro ambiente per scrivere la sua storia.
Nel corso degli ultimi anni si è visto Riccardo essere il
governatore di Boston a fine 1600, il Re di Svezia a fine 1700, il Presidente
degli Stati Uniti in vari periodi del XX secolo e così via.
Al Ponchielli di Cremona, nello spettacolo prodotto sul
palcoscenico del Fraschini di Pavia, al momento di accomodarsi
in sala e guardando il palcoscenico a sipario aperto, ci si rende conto di
essere nell'800, impressione subito confermata dopo l'ingresso del direttore,
poiché una breve scena ci racconta dell'attentato a Lincoln, seguito dall'urlo
ossesso della moglie del Presidente. Ma se ciò voleva essere un coup-de-théâtre,
in realtà ha sortito l'effetto imbarazzante di una barzelletta che non fa
ridere, che è perdurato, se non peggiorato, per tutta la durata dello
spettacolo.
E così Oscar diventa una donna civettuola - forse si può accettare
la sua trasformazione in stagista nelle trasposizioni contemporanee, ma qui non
trova alcun senso - Renato uno pseudo gangster, trafficante d'armi, o
d'alcoolici, o più presumibilmente di sigari, Samuel e Tom dei
cowboy occidentali, Ulrica una nativa americana cieca ascoltata da
donne e bambini Amish. Per non citare l'insulso continuo accendersi di sigari ad
opera dei congiurati in terzo atto, o il loro travestimento da nativi al ballo
con conseguente - e parecchio imbarazzante - danza della guerra, o della
pioggia, o di qualunque altra ragione. E la scena finale in cui Amelia
e Riccardo si riconoscono dopo alcuni minuti di conversazione pur non
avendo alcuna maschera. E Riccardo, ferito a morte, che resta in piedi
a perdonare tutti quanti.
Le note di regia sul programma di sala riportano: “il ballo è un insieme
schizofrenico” quando i più preparati musicologi della stria lo hanno
definito uno dei melodrammi più morbidi, compatti ed ispirati; “scene più
leggere con un rimando all'operetta francese ottocentesca; il compito più arduo
è cercare di livellare” ma ciò è un gravissimo errore, avendo Verdi
inserito tali scene, come ne La forza del destino e da egli
stesso dichiarato, per dare un riposo dal dramma, pertanto lo spianamento
intaccherebbe il suo volere primario; “da libretto ci troviamo a Boston nel
1700, dove in una lasciva corte capitanata dal Conte Riccardo si scontrano
pensieri più puritani e retti” ma da libretto ci troveremmo nella seconda
metà del 1600 e la corte non è certamente lasciva e ciò è provato dall'amore
puro tra i due protagonisti. La corte di Boston non è quella di Mantova, né la
casa di Violetta.
Le incongruenze continuano nei costumi di Valeria Donata
Bettella. Difficile esprimersi sull'abbigliamento nativo, amish o
pseudo texano o californiano, ma i vestiti europei presentano donne
prevalentemente ottocentesche, in linea con l'omicidio di Lincoln, ma uomini in
gran parte con abiti di inizio novecento e camerieri in livree settecentesche.
Le povere scene di Fabio Cherstich sono formate da due
palchi teatrali, poca attrezzeria e dei mezzi fondali.
Se proprio si vuole essere positivi e spezzare una lancia a favore di questo
spettacolo, sicuramente non ha disturbato e non ha annoiato, ma va assolutamente
dimenticato. Nicola Berloffa ha saputo e sicuramente saprà fare
di meglio, ma questa ciambella è riuscita senza buco, bruciata e con troppo
zucchero.
La direzione di Pietro Mianiti è un respiro di sollievo. Non
solo riesce a compattare l'Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano,
ma anche a rendere gli spazi emotivi verdiani con un accento suo personale che
permette di sentire qualcosa di nuovo e piacevole al tempo stesso, senza cadere
nel melenso pur attento al pathos, evitando gli effetti bandistici pur
concentrato sul vigore del Cigno di Busseto.
Si comporta ben anche il Coro OperaLombardia diretto da
Antonio Greco ed è un vero piacere assistere ad una
rappresentazione del Ballo con le voci bianche - spesso sostituite dal solo coro
donne - in questo caso ad opera del Civico Istituto Musicale Vittadini
di Pavia diretto da Giuseppe Guglielminotti Valetta.
Il protagonista è Sergio Escobar, una delle più belle voci
tenorili udite negli ultimi anni, calda, rotonda e pienamente squillante, ma con
la tecnica approssimativa di un apprendista, mal poggiato, spesso crescente,
acuti e gravi omessi troppo di frequente: in altri teatri il loggione non gli
avrebbe permesso di finire il primo atto. Il materiale resta comunque di
notevole importanza; sarebbe auspicabile un fermo di almeno sei mesi con
adeguato studio ad opera di un valido insegnante.
Lo affianca la brava Daria Masiero nei panni di Amelia,
ancor più brava di quanto non sappia fare solitamente se si considera che arriva
in fondo alla recita senza commettere alcun errore, pur cantando completamente
fuori ruolo, mancando dell'accento drammatico e dell'effetto spinto previsti dal
personaggio, ma che non la mettono in difficoltà, poiché con molta intelligenza
e professionalità la Masiero non va a cercare tinte e colori che non possiede
naturalmente.
Anche il Renato di Angelo Veccia se la cava bene,
pur dovendo districarsi tra sigari, asce e valigette. La vocalità del baritono
non è propriamente elegante e brillante, qualità necessarie per questo ruolo, ma
tecnicamente adempie completamente al suo compito, con buona intonazione, linea
di canto ed uso delle sfumature.
Annamaria Chiuri è un Ulrica pressoché perfetta
nell'esecuzione della parte, pur brillando maggiormente in ruoli più acuti, come
Azucena, Eboli ed Amneris. La resa del personaggio è
mastodontica: nonostante sia ridicolizzata nei panni di una shamana cieca pagata
con le mele e con pentolone fumante alle sue spalle, la Chiuri ha la presenza
scenica della grande professionista.
Shoushik Barsoumian è un - o sarebbe meglio dire una Lady -
Oscar con la voce di uno spillo che si dispiega bene tra trilli e
picchiettati, ma manca della corposità necessaria che dovrebbe avere il
personaggio che inavvertitamente fa accadere tutta la vicenda.
Molto buona la resa di Samuel e Tom, interpretati da
Mariano Buccino e Francesco Milanese, nonché di Silvano
e del Giudice, eseguiti da Carlo Checchi e Giuseppe Distefano.
|