Dopo la nomina della nuova dirigenza, quello del 2015 avrebbe dovuto essere
il Festival del rilancio e invece sembra essere il Festival delle beffe,
annunciato e presentato da continui cambi di cast, lettere e articoli alla
stampa locale, con attacchi, smentite e scusanti.
Parma, che un tempo era la capitale della musica, il solo teatro di
tradizione a reggere il confronto con gli enti lirici, se non addirittura
superiore in qualità, oggi è solo l'ombra di se stesso.
Si vuole continuare a fare i grandi col nome del più popolare compositore di
tutti i tempi, ma il livello è quello della provincia, esattamente come accade
agli altri festival fittizi italiani, poiché di vero festival ne esiste uno
soltanto ed è quello di Pesaro.
E come giustamente ha fatto notare qualche loggionista accanito, uno dei
pochissimi rimasti, la colpa non è solo delle dirigenze fallimentari che si sono
susseguite, presidenza compresa, ma anche del pubblico: senza andare troppo
indietro nel tempo, ai famosi tempi d'oro, ma restando nel XXI secolo, il rumore
sollevato dagli spettatori durante un disastroso Rigoletto del
2005 ha costretto molti alle dimissioni; un'altrettanto rovinosa Aida
nel 2012 ha fatto molto meno scalpore; l'Otello di oggi, che andrebbe benissimo su un altro
palcoscenico provinciale tranne che a Parma, ha provocato solo qualche flebile
mormorio, molto ben coperto dagli applausi e dalle acclamazioni di approvazione.
Non sussisterebbe alcun problema se tutti fossero contenti; ma il problema
c'è ed è enorme, poiché la città si lamenta per strada invece che in sala,
ammettendo di non fischiare per paura che il teatro chiuda; i biglietti di
platea della prima costano 250 euro e 140 per le repliche e i pochi turisti che
sono rimasti – poiché le date delle opere non sono adeguatamente incastrate per
permettere di assistere a tutti gli spettacoli in pochi giorni – si trovano a
pagare prezzi altissimi, credendo di trovare a Parma il vero Verdi,
e poi non si suona nemmeno l'edizione critica dell'opera restando nel solco
della tradizione.
La parte musicale di questa inaugurazione è sicuramente la migliore di tutta
la produzione, pur senza faville determinanti.
La Filarmonica Arturo Toscanini se la cava molto bene, anche
se il suono non è particolarmente cristallino e sul podio Daniele
Callegari compie un buon lavoro di amalgama tra buca e palcoscenico, ma
non si prodiga in una profonda lettura alla ricerca del colore.
Una mancanza ancora più profonda nei cromatismi, nelle sfumature, nel
fraseggio, nell'espressività, nell'accento, nel saper cantare con classe ed
eleganza la si ritrova in Rudy Park. La voce c'è ed è bella, ma
poggia quasi esclusivamente sulla natura e non sulla tecnica, natura che è
generosa nell'emissione, ma mortalmente noiosa mancando in tutto ciò che può
rendere una minima emozione all'ascolto. Rudy Park canta le
note di Otello – quelle alte, poiché nelle basse talvolta perde fiato – ma non
il ruolo. E il loggione lo lascia passare indenne, pur debole negli applausi.
È invece accolta in maniera contrastante la Desdemona di
Aurelia Florian, che attira su di sé qualche leggero mormorio, presto
zittito dai parmigiani che l'hanno adottata e che la mettono in palcoscenico per
la terza volta consecutiva in un ruolo sbagliato. Le note scritte per
Desdemona sono semplici, è un ruolo privo di particolari difficoltà, ma è
troppo centrale per la voce di Florian, che è costretta a
scurire e imbrunire i suoni al di là di ogni misura, risultando del tutto
innaturale e ciò la spinge, in alcuni punti, a essere velata e opaca.
Il migliore dei tre protagonisti è Marco Vratogna e ciò può
dare la misura del livello artistico della produzione. Il baritono, già
bastonato dal loggione nello stesso ruolo nel 2007, torna in forma migliore, ma
comunque lontano dall'essere uno Jago di riferimento. La dizione è
sinceramente eccellente, ma non così eloquente è il fraseggio; i piani sono
eleganti, ma sbaglia in toto “il fazzoletto” e fa risvegliare “il
leone” che in questo caso non è Otello bensì la galleria;
bellissimi gli acuti della grande aria di secondo atto, ma inconcepibili le
agilità macchinose e piene di “h” in “Innaffia l'ugola!”. È però
doveroso notare che è il solo interprete ad interpretare! Dunque a lui soltanto
va il nostro plauso.
Adeguato al resto del cast è il Cassio di Manuel Pierattelli,
che ha cantato meglio in altre occasioni; si è fatto notare positivamente anche
il Lodovico di Romano Dal Zovo. Gli altri comprimari
sono il Roderigo di Matteo Mezzaro, il Montano
di Stefano Rinaldi Miliani, l'Emilia di
Gabriella Colecchia e l'araldo di Matteo Mazzoli.
Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio di Parma
preparato da Martino Faggiani, affiancato dal bravo Coro di
voci bianche e giovanili Ars Canto guidato da Gabriella
Corsaro.
Il più contestato è Pier Luigi Pizzi, che con questo
spettacolo non fa certo onore alla sua lunga e brillante carriera. Bruttina,
seppur funzionale, era La battaglia di Legnano del 2012, molto
brutto è l'Otello di oggi. Prima di tutto la regia è
inesistente; non si può neppure dire che abbia seguito la tradizione, poiché non
c'era alcuna cura dei movimenti e della gestualità negli interpreti; i soli che
abbiano reso un minimo di recitazione solo coloro che hanno già cantato più
volte questi ruoli. L'impianto scenografico, oltre ad essere pericolosamente
scivoloso con un declivio pronunciatissimo, è fatto di cubi e quadrati che hanno
poco significato e del medesimo colore betulla dei mobili Ikea, che con
l'aggiunta delle porte nere negli ultimi atti sembra di essere nelle stanze di
un ostello scandinavo.
I costumi sono così sbagliati da sembrare presi all'ultimo minuto
dalle casse di una soffitta: tuniche nelle varie tonalità di sabbia e fango in
stile Nabucco per il coro uomini, contro colori inadeguatamente vivaci
per le donne; pelle fin troppo già vista e rivista per tutti gli uomini d'arme
eccetto Otello, intunicato e scalzo come se non avessero fatto
in tempo a preparagli un costume; Desdemona ed Emilia sembrano
vestite coi due costumi di Lida da La battaglia di Legnano.
Apparentemente buone le luci di Vincenzo Raponi, ma
non si può ben capire con tutto quel giallino betulla.
Da dimenticare le coreografie di Gino Potente.
E per fortuna che a Parma c'è il miglior fotografo di teatro, che con la sua
macchina sa ingentilire la qualunque.
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