In occasione di questo Flauto la sala del Bibiena registra il tutto esaurito
in ogni recita e l'esecuzione del capolavoro mozartiano risponde in parte alle
alte aspettative, in primis la lettura musicale dell'eccellente bacchetta di
Michele Mariotti, che si dimostra essere – ancora una volta –
sapiente “disegnatore e pittore” di colori e cromatismi, intrisi di sfumature e
venature che rendono il suo belcanto – da Mozart al primo
Verdi, passando soprattutto attraverso l'irrinunciabile
Rossini – particolarmente chiaro e nitido nelle caratteristiche che lo
compongono, senza mai rischiare di prevaricarne lo stile, ma in grado di
accentuarne il gusto.
La bravissima e precisissima Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
lo segue in maniera attenta e accurata. Prova più che positiva anche per il
Coro guidato da Andrea Faidutti, purtroppo
parecchio castrato dal lavoro di regia, che in alcuni momenti lo costringe sulle
porte del golfo mistico, in altri lo dispiega in platea addirittura dividendone
le sezioni, col risultato di udire il canto dei singoli e non del gruppo.
Paolo Fanale, che riprende il ruolo di Tamino per
la prima volta dopo il debutto di Oslo avvenuto qualche anno fa, si esibisce
nella sua naturale morbidezza, dimostrando ancora una volta di essere esemplare
interprete mozartiano, sempre attento alla purezza e all'omogeneità dei suoni,
abile fraseggiatore e cesellatore di colori, con una linea di canto sempre
uniforme.
Maria Grazia Schiavo si riconferma una Pamina
delicata, ben centrata nella parte, bravissima nel duetto con Papageno
e particolarmente attenta ai passaggi ingrati di “Ach, ich fühl's”
anche alcuni acuti sono leggermente aciduli.
Nicola Ulivieri si riafferma quale interprete di riferimento
del canto mozartiano e nel suo Papageno si individua un'eleganza che ha
pochi pari.
Eccellente, sotto ogni punto di vista, è il Sarastro di Mika
Kares, che insiste nella zona grave del pentagramma con invidiabile
musicalità, ottenendo risultati raffinatissimi in termini vocali e
interpretativi, con autorità nobile anche nell'accento.
L'anello leggermente debole di questa preziosa catena di protagonisti è la
Regina della Notte di Christina Poulitsi – nonostante
riceva il più grande successo personale con copiosi applausi e acclamazioni –
che produce dei bellissimi suoni sovracuti, ma difetta ampiamente d'accento
drammatico e di legato nelle pagine più patetiche. Il materiale che possiede è
ottimo, ma deve assolutamente essere perfezionato tecnicamente.
Efficacissima la prova di Andrea Patucelli quale Oratore,
come pure Gianluca Floris quale Monostatos e
Anna Corvino quale Papagena.
Si distinguono positivamente anche le tre dame di Diletta
Rizzo Marin, Diana Mian e Bettina Ranch, nonché i tre fanciulli di
Marco Conti, Pietro Bolognini e Susanna Boninsegni, anche se
vanno registrate un po' di stonature da parte di entrambi i gruppi. Concludono
il lungo cast gli efficaci Simone Casolari, Cristiano Olivieri, Luca
Gallo.
Accanto all'entusiastica riuscita della parte musicale e vocale, risiede il
desolante e inesorabile vuoto della parte visiva dello spettacolo, di cui si
nota chiaramente solo il grande impegno profuso dalla squadra di lavoro
(composta principalmente da Luigi De Angelis, Nicola Fagnani e Chiara
Lagani), ma il risultato è pressoché da oratorio e lo si potrebbe
valutare con la frase: “vorrei ma non posso”.
Tutti gli accenni e i richiami al Reame del Didietro di Wolfgang e della
sorella, al cinema di Ingmar Bergman e al teatro barocco del castello di
Drottningholm possono essere colti solo leggendo le note di regia o assistendo
alla presentazione dell'opera. Ma non si dovrebbe andare a teatro con le
istruzioni, poiché chi non conosce la vita di Mozart bambino, l'arte di Bergman
o chi non ha mai visitato la residenza della famiglia reale svedese non può
conoscere questi riferimenti.
L'esperimento dei video tridimensionali è equiparabile al cinema della
parrocchia. La gestualità dei cantanti è lasciata a se stessa. L'uso delle masse
non è nemmeno valutabile. Le luci scure e cupe non danno quasi mai un effetto
suggestivo. I costumi sono abiti che provengono evidentemente dal mercato o dai
grandi magazzini, poi dipinti. È invece apparso parzialmente positivo l'uso dei
diaframmi: molto probabilmente si sarebbe ottenuto un miglior risultato se si
fosse focalizzata l'attenzione su questi, incrementandoli ulteriormente per
evitare il vuoto e dare maggiore significato alle scene nella vicenda,
accantonando il 3D e la visione della sala del teatro come la sala del palazzo
di Sarastro.
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