Mettere in scena una Traviata degna di essere ricordata
negli annali della storia dell'opera italiana non è cosa facile, soprattutto
oggi, poiché vittima della sua stessa popolarità, vittima di una tradizione
musicale e canora che l'hanno snaturata, vittima delle difficoltà insite nelle
parti, anche le più piccole, che portano spesso alla scelta di interpreti
sbagliati.
Violetta non ha nulla di diverso da Abigaille, da
Gulnara o da molti altri ruoli del giovane Verdi. La
vocalità è la stessa, cambia solo il carattere che diventa più o meno eroico,
dunque è solo una questione di accenti. Le agilità di “Sempre libera” non sono
molto diverse da quelle di Amalia e la tessitura arriva al re come
Giovanna d'Arco. Il famoso mi bemolle – non scritto – lo si può fare – e
molte cantanti lo fanno – più o meno in quasi tutte le opere precedenti a
La traviata. E lo stesso vale per Alfredo. Per non
parlare di Flora, Annina, Gastone e Grenvil.
È la tradizione che ha portato questo titolo a essere eseguito da vocalità
leggere, ma si tratta di un errore filologico, nonché musicale, di portata molto
ampia.
Eva Mei è la bravissima e raffinata cantante che conosciamo
e anche in questa occasione non si smente. Nel duetto con Alfredo è una
grande cesellatrice di agilità e appoggiature, nel duetto con Germont è
un'eccellente fraseggiatrice, in “Addio del passato” è esemplare
nell'esecuzione dei pianissimi e dei legati e mostra un suono pulitissimo. Ma
l'intensità che deve trasmettere nell'interpretazione è solo nelle sue
intenzioni e arriva al pubblico solo a tratti. All'apertura dell'opera e al
successivo brindisi, la sua vocina non si confà al personaggio autorevole e
disinvolto della padrona di casa e i recitativi sono quasi sempre senza corpo o
spessore. Lo stesso vale per “È strano” che, pur essendo ben cantato,
manca di quella grinta imprescindibile in Violetta.
I medesimi demeriti sono da tributare all'Alfredo di Ivan
Magrì, che possiederebbe il materiale necessario al ruolo, ma non
sfrutta adeguatamente il suo slancio naturale – che invece ha dimostrato di
saper usare in precedenti ruoli drammatici donizettiani – ed abbisognerebbe di
un “tagliando” tecnico, soprattutto per il vibrato eccessivo, che nel lungo
termine potrebbe portarlo fuori strada nel giusto appoggio e dunque
nell'intonazione.
Contrariamente agli altri protagonisti Paolo Gavanelli porta
in scena un personaggio riuscitissimo, autoritario nelle sembianze, fermo nei
suoi propositi, dolce dove occorre, paterno nei sentimenti. Il suo Germont è
sinceramente toccante e il fraseggio è emozionante, soprattutto nelle frasi con
lunghi piani e smorzature. Purtroppo la vocalità non è piacevolissima e la linea
di canto è un poco discontinua, quindi con la sua interpretazione si guadagna in
intensità ma si perde in qualità musicale.
Il lungo stuolo dei comprimari è abbastanza mediocre, talvolta non pervenuto.
È composto da Anastasia Boldyreva, Simona Di Capua, Enrico Cossutta,
Francesco Verna, Italo Proferisce, Alessandro Spina, Davide Cusumano, Vito
Luciano Roberti, Nicolò Ayroldi. Molti di questi artisti sono già stati
uditi in altri ruoli con risultati positivi. Il fatto che in questo titolo non
riescano a farsi notare è ulteriore prova del fatto che non sono parti semplici,
seppur brevi.
Anche la direzione di Zubin Mehta è abbastanza anonima. È
sempre maestro di precisione e mai si permette di sovrastare gli interpreti, ma
l'uso di colori e sfumature è molto comune. Addirittura la sua eccellente
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino commette qualche
errore nelle prime battute dopo il preludio. Inoltre, dal celebre direttore, ci
si sarebbe aspettati un'edizione comprensiva della strofa “A me fanciulla”,
del da capo delle cabalette degli uomini, degli interventi del Dottore e poi
anche del Marchese e di Flora in “Su via, si stenda un velo”, delle
frasi conclusive di Alfredo, Annina, Germont e Grenvil al termine
dell'opera.
Bravo il Coro preparato da Lorenzo Fratini. Infine lo
spettacolo di Henning Brockhaus con scene di Josef
Svoboda, costumi di Giancarlo Colis e coreografia di
Valentina Escobar non ha bisogno di presentazioni, poiché ha
compiuto più di venti anni, ma è ancora efficacissimo e soprattutto un ottimo
esempio di risparmio intelligente in tempi di crisi: i teatri italiani sono
stracolmi di bellissimi allestimenti tuttora funzionali che giustamente devono
circuitare e portare alto il nome del nostro Paese e del nostro saper fare
cultura.
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