Da molto tempo non si assisteva ad uno spettacolo coprodotto da rinomati
teatri italiani – Firenze e Torino nel caso specifico – col volere intelligente
di spartire i costi, ma restituendo al pubblico un allestimento di buon gusto,
come si faceva un decennio o un ventennio fa, in un bilico costruttivo tra
tradizione e modernità, portando in scena idee e concetti che hanno a che fare
con la vicenda da raccontare e col conoscere la lingua fino al punto di
analizzare le stesse parole dei personaggi e non – fortunatamente – col volere
usare l'opera solo per far colpo, per far scandalo o per mostrare al mondo le
proprie turbe psichiche credendosi degli artisti maledetti.
Da un punto di vista visivo e narrativo I puritani andati in
scena all'Opera di Firenze sono davvero belli, piacevoli da
seguire, affascinanti da osservare, il tutto grazie ad una squadra creativa che
ha saputo amalgamare e miscelare le proprie singole capacità alla ricerca di un
più elevato risultato comune. Innanzitutto la splendida scenografia di
Tiziano Santi, pur non presentando una novità, è un graditissimo
ritorno.
La prospettiva della cattedrale capovolta è costruita benissimo e il suo
lento sgretolarsi è assolutamente indicativo del messaggio voluto dal regista.
Altrettanto positivi sono i magnifici costumi fiabeschi di Giuseppe
Palella che, colpiti dall'eccellente lavoro alle luci di Marco
Filibeck, assumono ancor più connotati suggestivi, a cavallo tra
racconti noir e gotici alla Tim Burton e favole classiche immaginate da adulti
disincantati piuttosto che da bambini sognanti.
Moltissimi sono i rimandi e gli accenni – voluti o meno – alla televisione,
al cinema, alla lirica genuina dello scorso ventennio e ciò aiuta lo spettatore
ad immedesimarsi senza riconoscersi, facendo arrivare il messaggio più in
profondità, poiché emotivamente non vengono innalzate difese.
Le tecniche del flashback e del flashforward tanto care all'arte
cinematografica qui si inseriscono perfettamente, proprio nelle parole del
libretto – come fa notare Fabio Ceresa – e sul palcoscenico
l'idea è ben prodotta, eccezion fatta per il duetto finale tra Elvira
ed Arturo, dove non è assolutamente chiaro il loro atteggiamento
discosto: anche se fossero un umano ed un fantasma, essendo innamorati,
dovrebbero comunque cercare un contatto fisico. Pure il costume ultimo della
protagonista è poco azzeccato, comunque non al livello dei precedenti, poiché
più che ridotto a brandelli sembra sia stato preso in prestito da una zingara.
Inutile svelare altri dettagli: lo spettacolo è da vedere e sarà al Regio di
Torino ad aprile.
Matteo Beltrami è sul podio dell'Orchestra del
Maggio Musicale Fiorentino e non pare particolarmente adatto a questo
repertorio, poiché spesso risulta grossolano e assordante, nonché abbastanza
privo di colori e sfumature. Anche il gruppo orchestrale non lavora con la
consueta precisione e pulizia di suoni, soprattutto la parte dei corni.
Jessica Pratt, protagonista indiscussa e giustamente
acclamatissima, torna al suo amatissimo Bellini e trova in
Elvira – come del resto in Amina – la tessitura vocale che
maggiormente si confà alla sua linea di canto dolce e raffinata. Non eccelle nel
duetto con Giorgio, ma con “Son vergin vezzosa” tira fuori
tutte le sue abilità di coloratura e agilità di forza, tuttavia la parte più
interessante è indubbiamente il finale primo, dove si prodiga in un canto
patetico sinceramente toccante in “Ah vieni al tempio”. Ciò accade
anche nella successiva “Qui la voce sua soave” dove la sua musicalità,
sorretta da fiati lunghi e sostenuti, la porta ad esprimere cromatismi di sicuro
effetto con filati naturali efficacissimi ed emozionanti. Perfette le
agilità della cabaletta, anche se non tutti i suoni sono propriamente puliti. In
effetti, in merito all'uso dei sopracuti di tradizione, va evidenziato che pur
essendo correttamente intonati, non le riescono cristallini come in altre
occasioni – eccezion fatta per i picchiettati delle cabalette – ma forse
complice di ciò è un'orchestrazione pesante e ben poco belcantista.
Antonino Siragusa affronta il difficilissimo ruolo di
Arturo con la consueta disinvoltura e musicalità. La sortita con “A te,
o cara” è limpida e luminosa, ma col difetto di disomogeneità nel
passaggio. Durante tutto il corso dell'opera accade che resti morbido e lineare
se le frasi arrivano fino alle prime note acute, ma se la tessitura lo deve
portare oltre, lo si sente spingere. Ciò è accaduto di recente anche in altre
occasioni e potrebbe diventare un difetto tecnico molto pericoloso se non
sistemato per tempo. Certamente non perde di smalto, anzi la sua generosità deve
essere premiata, soprattutto nell'interminabile terzo atto quando deve attingere
a tutte le sue energie e dove si prodiga in un cantabile intenso e d'effetto,
con belle frasi dolci e delicate.
Massimo Cavalletti è il baritono brillante e musicale che
conosciamo, ma non sembra trovarsi completamente a suo agio nel ruolo di
Riccardo, poiché certi passaggi gli sono ostici e di conseguenza perde
morbidezza ed omogeneità. Buono è il fraseggio del duetto con Giorgio,
anche se la successiva cabaletta non è così precisa. Tra l'altro è un sincero
peccato che la coreografia da eseguirsi nel momento conclusivo dell'atto non sia
riuscita come si deve, poiché sembrava essere interessante.
Gianluca Buratto sa distinguersi per l'espressività
dell'interpretazione, soprattutto in “Cinta di fiori”, ma qualche nota
un po' calante, la voce tendente all'opaco – seppur pastosa ed importante – e la
dizione un poco farfugliata non ne fanno un'eccellente Giorgio.
Rossana Rinaldi è un'Enrichetta che spicca per il
timbro, il colore e l'autorevolezza, anche se l'appoggio è talvolta un poco
precario.
Molto buona la prova di Gianluca Margheri nei panni di
Valton, soprattutto vocalmente, un po' meno nella gestualità leggermente
fissa, anche se equilibrata nella resa complessiva.
Sufficiente il Roberton di Saverio Fiore.
Validissimo il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto
da Lorenzo Fratini.
Bravissimi mimi e figuranti.
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