Per la prima volta nel corso della sua lunga e tormentata storia, la celebre
opéra-fantastique di Jacques Offenbach approda sul palcoscenico
del Teatro Municipale di Piacenza, in uno spettacolo
essenziale, pulito e filologico; senza alcun coup de théâtre o idea originale –
molti sono i richiami a rinomate regie storiche – ma non è una colpa, poiché è
mai noioso e mantiene viva l'attenzione per tutta la durata del lungo
avvicendarsi dei vari racconti.
Il lavoro di Nicola Berloffa è migliorato rispetto alla
precedente La vedova allegra, soprattutto nei movimenti, negli
ingressi e nelle uscite delle masse artistiche, che in questa produzione
appaiono ben più fluidi. Anche l'uso di alcune controscene ha contribuito a
rendere maggior animazione. Restano da migliorare alcune piccolezze – come i
pezzi nudi della bambola che escono dal sacco di Coppélius, mentre
potrebbero essere vestiti con gli abiti di Olympia; od un eccessivo ed
inopportuno utilizzo del grande caminetto come porta di accesso, conveniente a
La Muse/Nicklausse, forse ai personaggi demoniaci, ma poi troppo ed
inutilmente inflazionato – ciononostante è da notarsi un certo impegno
complessivo, che merita gli applausi ricevuti.
Piacevolissima, anche se proveniente da un'idea già usata in passato, la
scenografia pressoché unica nella taverna di Luther disegnata da
Fabio Cherstich, che si veste con gli attributi dei luoghi di
Olympia, Antonia e Giulietta, proprio come se Hoffmann stesse
sognando i propri racconti, addormentato in quella stanza. Efficacissimi, pur
anch'essi non troppo originali, i costumi di Valeria Donata Bettella.
Buono il progetto luci di Luca Antolini.
Giorgio Berrugi esegue il mastodontico ruolo di Hoffmann in
maniera decisamente corretta. Forse non sarà un interprete di riferimento e non
avrà una voce né uno slancio in grado di appassionare i cuori dei tenormelomani,
ma canta con musicalità ed intonazione tutta l'opera – si registra qualche
piccolo intoppo solo nella canzone di Kleinzach – gli acuti – pur non
svettanti – sono sempre limpidi ed in avanti e va notato che in questo temibile
personaggio risulta migliore di colleghi ben più blasonati. Molto ben riuscito è
il terzetto con Crespel e Miracle.
Simone Alberghini veste i panni dei quattro personaggi
demoniaci senza alcun difetto vocale, con buon accento ed efficacia
interpretativa, pur non essendo particolarmente coinvolgente, anche se
convincente.
Bravo il giovane tenore Florian Cafiero nel quadruplice
ruolo di Andrès, Spalanzani, Frantz e Pitichinaccio, dotato di voce
piena e sonora, ben centrata nella parte del padre di Olympia, forse un
poco affaticata nell'aria del domestico del padre di Antonia “Jour
et nuit” ma sicuramente un cantante da riascoltare e soprattutto da tenere
d'occhio.
Altrettanto valente è il debuttante Olivier Dejan, che sa
farsi notare sia in Maître Luther sia in Crespel, in possesso
di vocalità intensa e tonante. Anch'egli è cantante da seguire e riudire.
Molto efficaci anche Oreste Cosimo nei panni di
Nathanaël e Cochenille, nonché Aline Martin in
quelli della madre di Antonia.
Adeguati anche Josef Skarka nei ruoli di Hermann e
Peter Schlemil e i solisti del coro Andrea Bianchi,
Alessio Verna e Ruggiero Lopopolo.
Riguardo ai personaggi femminili, innanzitutto è da notarsi che i quattro
ruoli principali scritti per una sola interprete sono stati qui eseguiti da due
diverse soprano. La tradizione, che per oltre un secolo ha portato in
palcoscenico Les contes d'Hoffmann in una decina di versioni
più o meno lontane dall'originale voluto dal compositore, ha sempre indotto a
proporre l'opera con artiste differenti, soffermandosi su caratteristiche ad
effetto strappapplausi piuttosto che autentiche. Negli anni Settanta la prima a
ripristinare la giusta leggerezza per Antonia e Giulietta è
stata Joan Sutherland, pur non essendo ancora stato riscoperto
l'autografo dell'atto quarto. In tempi più o meno recenti, anche grazie agli
ultimi ritrovamenti, altri tentativi sono stati fatti da altre soprano, tra cui
Patrizia Ciofi e Silvia Dalla Benetta, dimostrando chiaramente
che non sussiste differenza tra le quattro diverse vocalità. Per oltre un secolo
si è stati abituati ad un'Olympia stracolma di sovracuti, ad un'Antonia
puramente lirica e ad una Giulietta ancor più corposa, ma una lettura
attenta dello spartito autografo, se si escludono le variazioni, porta a pensare
ad una sola interprete. E questa è chiaramente un'occasione persa, poiché lo si
poteva fare anche a Piacenza.
Al Municipale a vestire i panni della bambola è stata Elisa Cenni,
restando nel solco della tradizione del soprano leggero di coloratura e sembra
prendere spunto dalla storica interpretazione di Natalie Dessay.
La voce è morbida, l'intonazione è buona, gli acuti sono ben tenuti, i sovracuti
non sempre limpidi ma talvolta striduli, talaltra appena accennati. Nel
complesso la resa è molto buona, ma volendo essere precisi, non tutti gli
staccati previsti dalla partitura sono eseguiti correttamente, ma risultano un
po' troppo legati.
Invece Maria Katzarava, pur possedendo una voce molto
importante e naturalmente bella, è cantante inelegante e grossolana, dedita
all'urlo che tanto piace al pubblico medio, che applaude non appena sente i
decibel andare oltre un certo livello, indipendentemente dall'intonazione,
dall'appoggio e dalla qualità dal suono. L'aria di Antonia “Elle a
fui, la tourterelle” dovrebbe essere delicata e raffinata, mentre è volgare
nel canto e nel gesto, così come tutto l'atto.
Ancor peggiore è Giulietta, che invece di saper ammaliare e sedurre
con eleganza e ricercatezza, grida note pasticciate, soprattutto nel rondò – che
in pochi conoscono e probabilmente non ne capiscono il pastrocchio – e si
sbraccia come uno scaricatore di porto. A nulla serve la strillante uscita di
Stella. Il giovane soprano messicano ha un curriculum di tutto
rispetto, quindi si potrebbe pensare ad un'indisposizione, o più maliziosamente
al forte potere del suo agente.
Violette Polchi è più soprano corto che non mezzosoprano e
la sua interpretazione de La Muse e Nicklausse è abbastanza limitata,
soprattutto nei fiati troppo corti e nelle note basse ben poco salde.
Concludendo con Christopher Franklin, bravo direttore che sa
reggere i tempi e soprattutto le masse, anche nelle pagine più difficili della
partitura, ha come unico neo quello di non lasciarsi mai troppo andare nei
caratteri maestosi che invece sarebbero richiesti in alcuni passaggi: lo stile
di Offenbach è inconfutabile, intriso della raffinatezza
francese in ogni singola nota, sa però arrivare con somma eleganza all'estremo
della grandeur parisienne. Da notare che forse tale imperfezione è causata anche
dall'Orchestra Regionale dell'Emilia Romagna, che si prodiga in un suono sì pulito, ma
un poco svogliato, povero di trilli e di ritmo scintillante.
Molto buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza,
diretto da Corrado Casati.
Infine va segnalato che è stata diffusa l'informazione che l'opera sarebbe
stata eseguita, per la prima volta in Italia, sulla base dell'ultima edizione
critica curata da Kaye e Keck, i quali hanno potuto accedere ad una quantità di
musica e di documenti originali mai resi pubblici in precedenza. Purtroppo tale
versione è stata solo la base di partenza della produzione, poiché sono state
mantenute diverse pagine apocrife o mutuate da altri lavori, come vuole la
tradizione. Inoltre, dei nuovi ritrovamenti, sono stati proposti solo alcuni
pezzi, restando molto lontani da una versione integrale. Franklin
ha voluto rimarcare che “la nostra produzione, però cerca di rimanere nei
parametri di uno spettacolo di tre ore per un pubblico di oggi. Per motivi di
eccessiva quantità di musica abbiamo dovuto in un certo senso snellire la
partitura per potervela proporre per la prima volta qui al Municipale”.
La vera ragione di questa scelta non è molto chiara. Direzione svogliata?
Pubblico svogliato? Probabilmente no. Probabilmente, come già frequentemente
accaduto in altri teatri negli ultimi anni, mancanza di risorse economiche
sufficienti a coprire le impossibili richieste sindacali di alcuni lavoratori
dello spettacolo. E chi continua a pagarne il prezzo è la cultura.
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