Per la terza volta negli ultimi quaranta anni, Fidelio di Ludwig Van
Beethoven inaugura la Stagione del Teatro alla Scala di Milano
e segna anche l'addio del Direttore musicale Daniel Baremboim,
che conclude il suo mandato con un'opera che sembra rappresentare un sunto del
suo saper fare musica. La scelta di utilizzare la prima versione dell'ouverture
– la Leonore II op. 72 a – e la conseguente modifica di alcune scene,
forse non rispetta il valore ultimo del compositore, ma quasi certamente ne
rispetta il volere ultimo, in un crescendo di tensione drammatica che, nella
revisione finale, viene in parte a mancare, esplodendo fin dall'inizio.
Allontanando il dibattito, che da due secoli esatti si arrovella attorno alle
varie edizioni sia dell'opera sia dell'ouverture, oggi pare certamente più
doveroso soffermarsi sulla lettura di Baremboim che in
Beethoven, più che negli autori italiani, trova il suo terreno di
elezione. Tutto il primo atto è eseguito con una guida decisamente prolissa, che
forse non appassiona e non fa sfarfallare lo stomaco, ma racconta la musica del
compositore tedesco con una precisione quasi maniacale, una ricchissima
tavolozza di colori e un suono pulitissimo. Fortunatamente il secondo atto
prende maggior tono e il finale è ben eseguito, anche se è da notarsi una certa
mancanza d'accento drammatico, oltre ad un eccessivo fragore che copre le voci.
Anja Kampe porta in scena il suo eccellente personaggio,
sempre molto ben riuscito tanto come Fidelio quanto come Leonore.
Purtroppo vocalmente non è più così apprezzabile, poiché tutta la zona acuta è
straziante fin dall'inizio e la resistenza è temporalmente limitata, scomparendo
quasi del tutto nella lunga pagina conclusiva, dove arriva purtroppo sfiatata.
La accompagna Klaus Florian Vogt, limpido e musicale, che
risolve molto bene le insidie dell'aria di Florestan.
L'interprete migliore è chiaramente Kwangchul Youn, che
esegue il ruolo di Rocco con omogeneità e precisione, sempre aderente
alla sua linea di canto e con buon uso dei colori, seppur un poco baritonale.
Falk Struckmann risolve l'aria di sortita di Don
Pizzarro in maniera piuttosto mediocre, un poco calante e scarsamente
stentoreo. Decisamente migliore è il successivo duetto con Rocco e riesce
abbastanza bene in tutto il resto dell'opera.
Migliore, da un punto di vista musicale, il Don Fernando di
Peter Mattei, anche se le note basse sono alquanto abbozzate e lontane
dall'essere salde e ben poggiate.
Buona la prova della coppia Marzelline e Jaquino con i
delicati e leggiadri Mojca Erdmann e Florian Hoffmann.
Riuscitissimo è il quartetto con Rocco e Fidelio.
Eccellente il Coro del Teatro alla Scala diretto da
Bruno Casoni, con una nota di merito per Oreste Cosimo e Devis
Longo nelle parti dei due prigionieri.
Per quanto riguarda lo spettacolo di Deborah Warner, con
scene e costumi di Chloe Obolensky, il pregio è quello di
essere pulito, filologico, in linea con lo sviluppo musicale e drammatico, pur
in una trasposizione moderna. Il difetto è quello di non aver dato alcun nuovo
spunto, di aver seguito solo le note del libretto, pertanto di totale inutile
spesa, soprattutto in questo forte momento di crisi – economica ed artistica –
che non dà segno di cessare, anzi sembra continuamente peggiorare.
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