Il lavoro di revisione critica svolto dalla Fondazione Rossini,
allo scopo di riesaminare e ripresentare al pubblico odierno l'intera opera
rossiniana, sta giungendo al termine e proprio in occasione dell'allestimento di
Aureliano in Palmira – da valutarsi come una vera e propria
prima mondiale, considerata la quantità di musica ritrovata e mai eseguita in
precedenza, se non ai tempi del compositore – le aspettative erano molte,
soprattutto in vista del ritorno a Pesaro di Mario Martone, già
autore di spettacoli di grande successo.
Purtroppo il celebre regista napoletano non è all'altezza di sé stesso. La
causa potrebbe ripiegarsi principalmente nella limitatezza delle risorse
economiche a disposizione, ma ciò non significa che un professionista del suo
calibro debba ridursi al risparmio da spettacolo da oratorio, senza invece
inventarsi soluzioni diverse e che possano lasciare uscire il suo vero livello
artistico.
Registicamente il coro è da censurare: in molti sbagliano o non coordinano i
pochi movimenti a loro disposizione, oltreché essere vestiti in maniera
evidentemente scadente; un migliore risultato si sarebbe ottenuto con l'uso del
coro alla greca. Labirinti in scena se ne sono già visti a iosa, senza
considerare che questo, costituito di stoffa, è probabilmente fono assorbente,
abbastanza brutto da vedere e inutile allo svolgimento di una vicenda che di
labirintico non ha nulla.
La ricostruzione delle due strutture in proscenio lascia intravedere la
consueta abilità di Sergio Tramonti, ma ci si domanda il motivo
per cui occorra spostare la scena a ridosso dei palchi – col palcoscenico
completamente vuoto – nascondendosi alla vista di quasi la metà del pubblico. Se
la vera trovata di regia risiede nella messinscena del fortepiano e del
violoncello continuo, purtroppo non si ottiene alcun effetto positivo, poiché
non solo è già stato fatto, rifatto e strafatto, ma è davvero ridicolo vedere
Arsace che si nasconde dietro allo strumento per celarsi ai pastori; e
a nulla vale la bravura Lucy Trucker Yates – la sola vera
attrice della produzione – poiché il dramma sincero che si legge nei suoi occhi
e nei suoi gesti, lo si sarebbe preferito vedere non in lei, bensì nel resto
dello spettacolo. E il coup-de-théâtre di quattro o cinque caprette che entrano
col pastore e brucano l'erba, sembra proprio significare: “vorrei, ma non
posso”.
Poco efficaci sono i costumi firmati da Ursula Patzak,
alcuni per l'eccessiva economia delle stoffe, altri per l'incongruenza –
Aureliano e Licinio con pantaloni morbidi infilati negli anfibi? –
ma migliori risultano le parrucche e i gioielli. Poco suggestivo il disegno luci
di Pasquale Mari.
Will Crutchfield si riconferma eccellente musicologo,
preciso e filologico e la sua revisione critica è decisamente un passo
fondamentale nel percorso della Rossini Renaissance. Non solo ha permesso
l'ascolto di tanta musica mai più eseguita da duecento anni, ma anche il
recupero di pagine e di tonalità presumibilmente più vicine all'originale. Tanta
abilità sulla carta purtroppo si traspone soltanto sulla conduzione delle voci
in palcoscenico e non sulla guida dell'orchestra, in quanto la sua mano risulta
essere poco avvincente, quasi soporifera e ciò lo si nota fin dalle primissime
battute della sinfonia. Probabilmente complice anche la Sinfonica G.
Rossini, un poco confusionaria.
Michael Spyres è un Aureliano azzeccatissimo.
L'interpretazione è purtroppo ridotta ai minimi termini, ma la vocalità è
eccellente e il tenore americano si riafferma uno dei migliori interpreti
rossiniani, soprattutto nel repertorio bari tenorile. La messa in mostra delle
agilità e delle note gravi nella prima aria, lascia poi spazio all'eleganza e al
fraseggio dei duetti successivi, infine alla robustezza degli acuti ben
sostenuti nella seconda aria.
Anche Jessica Pratt consolida la sua abilità nello stile
serio di Rossini, anche se il ruolo di Zenobia
presenta delle insidie abbastanza evidenti. La celebre soprano è indubbiamente
una regina di morbidezza, di omogeneità e di precisione musicale, oltreché di
bellezza naturale di certe note, delicatissima e raffinata nei duetti, ma troppo
dolce nell'aria drammatica “Là pugnai; la sorte arrise” dove sembra
mancare di un certo accento, nonostante l'indubbia bravura e perizia tecnica
nelle agilità di forza. Non è comunque chiaro se tale carenza sia dovuta
all'interprete, alla direzione o addirittura allo stesso compositore, che in
quest'opera è chiaramente proiettato al romanticismo.
Nel canto di Lena Belkina si trova sicuramente una vocalità
più vicina a quella originale di Velluti, piuttosto che ad interpreti
successive più contraltili. È vellutata e soave nei lunghi passaggi patetici, si
amalgama molto bene con la musicalità di Jessica Pratt nei bei
duetti e si impegna notevolmente nella resa della lunga gran scena d'Arsace
di secondo atto, riuscendovi nell'intenzione rossiniana – soprattutto
nell'attesa cabaletta “Non lasciarmi in tal momento” – pur non
spuntandola nel personaggio, mancando decisamente di spessore e certamente di
esperienza.
Molto bene la Publia di Raffaella Lupinacci;
adeguati il Licinio di Sergio Vitale e l'Oraspe
di Dempsey Rivera; passabile, abbastanza musicale, il Gran
Sacerdote di Dimitri Pkhaladze.
Un poco confusionario il Coro del Teatro Comunale di Bologna, soprattutto
all'apertura di secondo atto, diretto da Andrea Faidutti.
|