Il capolavoro rossiniano mancava da molti anni dal palcoscenico del
Piermarini e ci si aspettava da Laurent Pelly un
allestimento maestoso ed elegante. Invece, all'apertura del sipario, le
attese speranzose si tramutano in desolazione: il paesaggio col castello e il
romitaggio lasciano il posto alla presunta palestra di una scuola di paese,
adibita a sala riunioni con sedie e palco disposti sul campo da gioco. Non è
certamente bello da vedere, né si trovano in scena le finezze della musica di
Rossini o del canto francese. Ma già col procedere
dell'introduzione si inizia a notare una certa filologia nella trasposizione di
Pelly e soprattutto diviene chiaramente evidente la mano di un
regista che sa fare davvero il suo lavoro.
Nulla è lasciato al caso: gestualità ed espressività dei personaggi, ingressi
e uscite, scene e controscene, tutto è fluido e preciso, non solo secondo una
logica drammaturgica, ma anche in rapporto alla musica. In poche parole questo
spettacolo può non appagare la vista, può non piacere, può sembrare spoglio, può
essere un po' volgarotto, ma indubbiamente funziona ed è estremamente efficace.
Un po' meno precisa è la bacchetta di Donato Renzetti, che
pare non stare in punta, che sembra strascicare i suoni, anche se non è detto
che sia tutta colpa sua.
Il risultato musicale è abbastanza discreto, ma da Rossini
al Teatro alla Scala ci si aspetta il filo a piombo, mentre la
sensazione è che ognuno – orchestra, coro, cantanti – faccia un po' quel che
vuole, indipendentemente – a causa o a discapito, non è ben chiaro – della
direzione.
Juan Diego Florez, affetto da una forte indisposizione, è
sostituito da Colin Lee nel temibile ruolo di Ory, che
affronta con disinvoltura, senza traccia di emozione nella voce, con suoni
limpidi e puliti e acuti ben sostenuti. Qualche difficoltà la si sente nelle
note più basse, nonché nel parlato, dove perde potenza e proiezione e tende a
scomparire. È comunque chiaro che il tenore sudafricano sia dotato di una certa
musicalità che si spera venga coltivata a favore di una serie di miglioramenti
nelle zone più deboli.
Aleksandra Kurzak, nei panni della contessa, dimostra di
essere una bravissima interprete, simpatica, accattivante e molto opportuna
nella recitazione. La voce ha un bel colore, è ben timbrata ed intonata nel
canto spianato, mentre le agilità, soprattutto quando salgono all'acuto, non
sono sempre precise e accurate.
José Maria Lo Monaco è un Isolier poco
significativo, si nota una certa mancanza di spessore e il canto poco
strutturato è quasi sempre stiracchiato nelle note alte.
Stéphane Degout è un bravo Raimbaud, ma piacerebbe
di più se la voce fosse più brillante.
Roberto Tagliavini affronta con disinvoltura il ruolo del
gouverneur, prodigandosi in un'esecuzione ben riuscita della difficile “Veiller
sans cesse” e soprattutto dell'ardua cabaletta “Cette aventure”. Forse non
possiede un'elasticità particolarmente spiccata, ma risolve tecnicamente ogni
passaggio, approfittando anche di un colore abbastanza scuro che, accanto alla
sua facilità di salita all'acuto, gli rende onore su tutta la tessitura.
Molto brava la Ragonde di Marina De Liso.
Efficaci Rosanna Savoia, Massimiliano Difino e Michele Mauro
nelle parti di Alice, Gérard e Mainfroy.
Buona la prova del Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.
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