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Recensione dell'opera lirica Carmen di Georges Bizet al Carlo Felice di Genova

William Fratti, 26/05/2014

In breve:
Genova - Recensione dell'opera lirica Carmen di Georges Bizet al Teatro Carlo Felice di Genova il 13 maggio 2014.


Molti teatri d'opera italiani sono in gravi difficoltà, soprattutto per la scarsità di risorse private e pubbliche a loro disposizione, ma – a parere dei liberi professionisti che frequentano palcoscenici, quinte, uffici, corridoi e magazzini – più presumibilmente per la malagestione, per l'eccessivo spreco di risorse, per la mancanza di voglia di fare bene il proprio mestiere, o di approfittare della propria posizione.

Come sempre accade nelle più tradizionali storie italiane, è che queste voci circolano di bocca in bocca, ma mai nessuno denuncia il fatto o prende provvedimenti.

Un imprenditore, che a causa della crisi si è trovato costretto a chiudere la propria azienda, ha raccontato in un bar di avere ricevuto l'incarico di facchino, come libero professionista, di una ben nota fondazione teatrale sotto commissariamento, scoprendo che i compiti che svolge potrebbero essere assolti dal personale interno che spesso si trova a fare nulla, ma che si cela dietro il proprio ruolo, adducendo di non essere uno scaricatore.

La vera follia sta soprattutto nella mente chiaramente ottusa di queste persone, che non riescono a vedere quanto la loro incuranza causa danno a chi gli procura uno stipendio, col serio rischio di chiudere. Ma se davvero tutto ciò accade così di frequente, in una logica di privatizzazione, forse sarebbe meglio avere strutture aziendali più leggere affidandosi di volta in volta alla libera professione, come si fa per gli artisti solisti.

Il Carlo Felice di Genova non è certamente esente da questo genere di polemiche. Addirittura una piccola parte di dipendenti è scesa in sciopero durante le prime tre recite di Carmen, obbligando la maggior parte dei colleghi non aderenti a non poter svolgere il loro lavoro. Sacrosanto è il diritto a protestare e scioperare; ma meschino e soprattutto antiproduttivo è spingere altri con la forza. Così il teatro, non avendo potuto aprire al pubblico, ha dovuto rimborsare i biglietti venduti, con una perdita economica considerevole, che non dovrebbe finire per pesare – come sempre – sulle tasche dei cittadini che pagano le passe, bensì direttamente sul portafogli dei colpevoli.

In questo clima genovese che si potrebbe definire caldo, ma è forse più opportuno definirlo desolante, la prova degli interpreti in palcoscenico, molto probabilmente, è resa con minore intensità, minor vigore e minor passione a causa di queste terribili giornate di sciopero che li ha condotti ad eseguire la loro prima e unica recita di fronte ad una platea di studenti, certamente entusiasti, ma chiassosi e non propriamente invoglianti.

È doveroso, importante e assolutamente fondamentale istruire i giovani in merito all'arte dell'opera, ma è presumibilmente più semplice, per un cantante e un musicista, farlo nel giusto ambito, cioè come avrebbe dovuto essere se gli spettacoli precedenti non fossero stati annullati.

Così Sonia Ganassi, già Carmen applauditissima in molti teatri, qui pare chiaramente sottotono. L'interpretazione è discreta, ma la voce sembra essere quasi svuotata e stimbrata, come se cantasse durante una prova.

Francesco Meli debutta il ruolo di Don José in un'atmosfera che non è molto consona, con l'aggiunta del dispiacere che si tratta del teatro della sua città. Come già scritto in molte occasioni, Meli è uno dei migliori tenori del momento ed eccelle nel primo duetto, dove la sua consueta raffinatezza riesce a dipingere un personaggio romanticissimo, pur eccedendo un poco nell'emissione delle mezze voci: sono un suo segno distintivo e le esegue con una perfezione ineguagliabile, ma in questa parte tende a inserirne un po' troppe. E così le altre pagine dell'opera sono rese con più eleganza che passione, col risultato di trasmettere emozioni poco filologiche. Non è certo un delitto, ma è una questione di stile.

Serena Gamberoni non solo è la brava cantante degli ultimi tempi, ma addirittura è ancora in miglioramento. Purtroppo la sua Micaëla, soprattutto per l'orchestrazione che la sostiene, avrebbe bisogno di maggior spessore vocale, non in termini drammatici, ma in pienezza e rotondità di suoni.

Sinceramente eccellente è il toreador di Alexander Vinogradov. Finalmente è stato possibile ascoltare un Escamillo in grado di accontentare il pubblico con gli acuti, saldi e ben sostenuti, così come vuole la tradizione, ma anche pieno, solido e ben appoggiato nelle note basse, con l'ulteriore impreziosimento di un buon fraseggio.

La rosa dei comprimari è perlopiù deludente, soprattutto il Moralès di Claudio Ottino, lo Zuniga di Davide Mura e la Frasquita di Francesca Tassinari, mentre passano abbastanza inosservati la Mercédès di Margherita Rotondi, le Dancaïre di Roberto Maietta e il Remendado di Manuel Pierattelli.

Andrea Battistoni dirige l'Orchestra del Teatro Carlo Felice in maniera piatta e priva di colori, senza un minimo di fraseggio.

Positiva la prova del coro diretto da Pablo Assante, mentre insufficiente quella del coro voci bianche guidato da Gino Tanasini, impreciso, poco intonato e rumoroso.

Lo spettacolo di Davide Livermore, con costumi di Gianluca Falaschi e movimenti mimici di Giovanni Di Cicco, è riuscito solo a tratti. Il regista eccelle sempre nella gestualità dei protagonisti e nella costruzione delle controscene, ma sceglie un'ambientazione che – oltre a non essere originale – ha poco a che fare con Carmen. Se la rivolta siciliana del XIII secolo si è perfettamente sposata con la trasposizione contemporanea della lotta alla mafia nei Vespri verdiani, la storia della zingara che desidera restare libera fino all'ultimo istante della sua vita poco ha a che fare con la rivoluzione cubana. Pertanto molte scene diventano una forzatura, soprattutto il quarto atto in cui Escamillo aizza la folla, fino a fare sembrare la musica avulsa dalla scena. L'adattamento della taverna di Lillas Pastia in attuale locale notturno è simpatica, ma le coreografie sono troppo simili al quinto atto dei Vespri e all'Italiana pesarese. Migliore è la ricostruzione rivoluzionaria che apre il terzo atto, ma non si lega comunque nella chiave d'insieme.

 
 
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