Della circolazione non unitaria dei tre atti unici pucciniani se ne è già
parlato in molte occasioni, adducendo alle motivazioni più disparate.
Molto probabilmente la verità risiede nell'odierna difficoltà di molti teatri
di rappresentare il Trittico in una sola serata, non tanto per ragioni
scenografiche – considerando che si è assistito a orribili nuovi allestimenti
finanziati dal Ministero fatti di bauli e tendaggi – quanto per la lunghezza –
almeno quattro ore tra musica e pause – che rischia di portare in straordinario
le masse artistiche.
È vergognoso, ma è reale; è storia di quotidiana follia all'italiana: si
tagliano i da capo delle cabalette, le seconde strofe delle arie e dei duetti,
le ripetizioni dei concertati, intere romanze, dunque perché non separare anche
il Trittico?
Già da tempo Gianni Schicchi sta circolando accanto a
Eine florentinische Tragödie di Alexander Zemlinsky,
con la pretesa della medesima ambientazione fiorentina, ma che ha ben poco senso
nell'era delle regie moderne e trasposte.
Così appare molto più opportuno il libretto scritto da Flavio
Ambrosini, che perlomeno istruisce gli spettatori – sempre meno attenti
e acculturati – sulla provenienza dantesca del simpatico personaggio pucciniano,
realmente esistito, cacciato all'Inferno dal sommo poeta, ma redento dal
compositore lucchese e infine perdonato dal pubblico con “l'attenuante”.
Il testo di Ambrosini è semplice, ma di effetto, toccando anche qualche
momento drammatico all'interno di una vicenda comunque leggera; ma resterà per
sempre vittima della sua caratteristica essenziale e imprescindibile del legame
“siamese” con lo Schicchi, senza cui non ha motivo di esistere.
La musica di Sergio Monterisi è riuscita, poiché resta
lontana dalle forme più contemporanee – avulse all'opera di cui vuole essere
prologo – per avvicinarsi maggiormente agli schemi della metà del Novecento,
quasi tra Puccini stesso, Britten e le migliori colonne sonore scelte da
Hitchcock, fungendo dunque da apri strada sinfonico oltreché letterario.
Sul fronte degli interpreti, l'Orchestra Amilcare Zanella del
Conservatorio G. Nicolini di Piacenza diretta da Fabrizio Dorsi
non si comporta male, risultando addirittura migliore di gruppi di
professionisti mal condotti. Ciononostante non è esente da passaggi grossolani:
i concertati risultano molto confusionari.
Accettabile la prova del Coro di Voci Bianche del Conservatorio G.
Nicolini di Piacenza guidato da Giorgio Ubaldi.
Gezim Myshketa è protagonista assoluto del neo nato dittico,
prima Puccini liricissimo – come si conviene alla sua vocalità
– dotato di slanci eleganti e squillanti, poi Schicchi riuscito solo a tratti,
poiché primeggia nei cantabili, ma successivamente cade troppo nel parlato e
nella macchietta.
Maria Rosaria Lopalco è un'adeguata Elvira – anche
se si sarebbe preferito un canto meno leggero – e una brava Lauretta
sotto il profilo tecnico, ma è opportuno che cerchi di arrotondare i suoni,
poiché risulta pungente e fastidiosa in molti passaggi.
Gabriele Mangione, nei panni di Enore e
Rinuccio, è un tenore particolarmente dotato di natura, nel timbro, nel
colore e nella potenza, ma deve percorrere una lunga strada prima di essere
proponibile in un ruolo protagonista. È decisamente sgraziato, gli acuti sono
tirati e forzati, è spesso impreciso e i suoni sono perlopiù poco puliti.
Davide Giangregorio se la cava molto bene come Dante
e Betto, anche se nel primo ruolo una voce dotata di maggior spessore e
autorità – si pensi al Leone in Attila, o Moser ne I masnadieri – sarebbe parsa
decisamente più opportuna, discostandosi maggiormente dal colore lirico di
Puccini.
Efficaci il mezzadro e il Simone di Federico
Benetti.
Riuscita scenicamente, ma non vocalmente, la Zita di
Francesca Ascioti, spesso tirata nelle note alte.
Adeguato il notaio di Simone Scatarzi Alberti.
Più che positiva la prova degli Interpreti della Scuola di Canto del
Conservatorio G. Nicolini di Piacenza coordinati da Francesca Garbi,
Maria Laura Groppi, Adelisa Tabiadon: Federica Pecorari, Sung Min Mun, Gioele
Assenza, Jin Heon Song, Josette Carenza, Minho Lee, Jihoon Kim, Chan Yang Kim.
La regia di Flavio Ambrosini, con scene e costumi di
Carlo Centolavigna e luci di Michele Cremona, resta
ancorata alla vecchia scuola, certamente efficacie per buona parte del pubblico,
ma un poco polverosa per i più giovani e i più assidui frequentatori del teatri
d'opera internazionali.
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