Leggendo la locandina della nuova produzione de La vedova allegra
al Teatro Municipale di Piacenza si scorgono molti nomi che
hanno alle spalle una eloquente esperienza nel titolo. Pertanto l'ingresso in
teatro, la sera di San Valentino, avviene col sorriso sulle labbra e una certa
aspettativa, che viene immediatamente confermata, all'apertura del sipario,
dalle magnifiche scene e dagli splendenti costumi di Artemio Cabassi,
accolti subito con un applauso.
Il dorato barocchetto del salone delle feste dell'ambasciata del Pontevedro è
arricchito dai kimoni di pregevole fattura indossati dalle signore; mentre i
sontuosi giardini alla francese di casa Glawari sono impreziositi dagli
sfavillanti costumi tradizionali della piccola nazione balcanica; infine il
parco di Hanna trasformato nel celebre Maxim si tinge di
viola, rosso e fucsia nello sfolgorante finale sorprendentemente elegante.
Le belle luci di Michele Cremona contribuiscono a
dare la giusta suggestione alle incantevoli scenografie e agli abiti eccellenti
di Artemio Cabassi.
I pregi nell'allestimento contrastano con alcune incongruenze che abbiamo rilevato.
Primo fra tutti la regia di Nicola Berloffa, che
presumibilmente vuole smacchiare l'esibizione dai tradizionalismi delle
compagnie d'operetta, ma talvolta risulta, a nostro parere, effettivamente troppo scarna.
Gli
ingressi e le uscite di tutti i personaggi non sono gestite al meglio. Un bravo regista può trasporre una vicenda
ad altre epoche allo scopo di trasmettere un particolare messaggio o per
svecchiare una particolare trama, ma non può uscire dalla filologia del
libretto, né dalla drammaturgia che costruisce e costituisce i fatti. Leggendo
lo spartito ci si rende conto molto chiaramente dello spazio fisico e temporale
in cui si svolgono tutti gli episodi: la danza.
L'esibizione coreografica e scenografica sfama l'appetito primario dello
spettatore, come la nota di testa di un profumo. Prima l'avvio e poi lo
scioglimento del dramma accadono durante i balli, trasmettendo messaggi e
tematiche profonde in maniera del tutto leggera, come la nota di cuore e dopo la
nota di base. In questa produzione la drammaturgia nella danza è limitata.
Ad alzare le gambe, per pochissimi minuti, sono soltanto le grisettes
coordinate da Valencienne e l'étoile Giuseppe Picone.
Che il celebre ballerino sia indiscutibilmente un artista di primissimo livello,
non ci sono dubbi. Che i suoi a solo siano stati eleganti, affascinanti ed
appassionati, oltreché sapientemente eseguiti, non è contestabile. Ma la sua
presenza in scena avrebbe dovuto amalgamarsi meglio nella scena con gli altri protagonisti poichè i valzer, le mazurche, il can-can
e le marce che si susseguono dovrebbero essere il terreno drammaturgico dei
protagonisti e non solo il palcoscenico di un étoile che non è neppure un
personaggio.
Scelte dicotomiche, incongruenti e soprattutto incoerenti sono state prese
anche da Christopher Franklin e la delusione, in tal caso, è
accentuata, poiché già lo si era fortemente applaudito in occasione del medesimo
titolo al Teatro Carlo Felice di Genova. L'affermazione secondo cui “La
vedova allegra richiede un'orchestra grande, con archi abbondanti, fiati e
ottoni pieni come nel grande repertorio sinfonico, ma pure la presenza di
strumenti più ricercati come arpa, glockenspiel, chiatarra, tambourine” può
anche essere condivisibile, ma solo se avesse avuto a disposizione un gruppo
orchestrale adeguato – e non chiassoso, rumoroso e impreciso, soprattutto nelle
percussioni e nei fiati – ed interpreti avvezzi al repertorio mitteleuropeo di
inizio secolo.
Non è possibile chiedere a cantanti che frequentano altro tipo di ruoli – o
che hanno assiduamente eseguito Vedova come Sanguinetti e
Safina, riscuotendo grandi successi, ma con concertazioni
adeguate alle loro possibilità – di improvvisarsi nelle vocalità di Salome,
Elektra o Der Rosenkavalier. Inoltre, se si fosse sinceramente desiderato di
onorare l'arte di Lehar, non si sarebbero inseriti pezzi
mutuati da altri autori – come fanno le compagnie; ma non si voleva fare uno
spettacolo più pulito ed originale? Questa è l'ennesima contraddizione – al
posto di pagine originali ingiustamente tagliate.
Paola Sanguinetti, Hanna Glawari apprezzata e
applaudita più e più volte, qui appare strozzata da suoni e tempi inaccettabili.
Non si vuole incolpare nessuno, ma è giusto che il direttore sappia che se vuole
un buon risultato, non può suonare da solo. L'opera deve essere un gioco di
squadra. Se un bravo chef ha a disposizione delle zucchine troppo sottili per
poterle fare ripiene, invece di incaponirsi dovrà decidere coscienziosamente di
cucinarle in altro modo.
Alessandro Safina è un Danilo più sciolto e
persuasivo, ma comunque non troppo corretto e tirato fino al limite.
Le stesse considerazioni valgono per la coppia Valencienne e
Rossillon, interpretati da Diletta Rizzo Marin e Oreste Cosimo.
Daniele Cusari , talvolta impreciso, se la cava con la simpatia,
affiancato dai divertenti Dario Giorgelè e Graziano Dallavalle.
Completano il cast gli efficaci Giovanni Bellavia, Federica Gatta,
Valentino Salvini, Chiara Manese, Andrea Zaupa, Stefania Majardi, Corrado Calda
e una riduzione del Coro del Teatro Municipale di Piacenza
diretto da Corrado Casati.
Applausi provenienti dalla platea e qualche rara contestazione scaturita
dalle gallerie, rivolte a Franklin, Sanguinetti, Safina e Rizzo Marin, hanno
concluso la serata.
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