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Recensione opera Nabucco di Giuseppe Verdi al Maggio Fiorentino di Firenze

William Fratti, 29/01/2014

In breve:
Firenze - Recensione dell'opera lirica Nabucco di Giuseppe Verdi messa in scena il 24 gennaio 2014 al Maggio Musicale Fiorentino a Firenze.


Dopo trentacinque anni di assenza dal palcoscenico fiorentino, Nabucco di Giuseppe Verdi apre la Stagione 2014 del Maggio con lo spettacolo Premio Abbiati 2012 per la miglior regia.

Non v'è dubbio che, accanto a pochi altri nomi italiani, Leo Muscato sia il regista del momento – si ricordano i recenti successi de I masnadieri a Parma e L'Africaine a Venezia – ma la ripresa del dramma verdiano al Comunale di Firenze non accende gli animi come alla prima cagliaritana.

La visione e la concezione originale di Muscato restano e si percepiscono, ma in questa ripresa ciò che in parte viene a mancare è l'attenzione maniacale ai dettagli, al gesto e all'azione di ogni singolo individuo in scena. Solo il celebre “Va', pensiero” non difetta di questa prerogativa dei lavori dell'artista martinese, mentre il resto sembra rimesso in scena un po' troppo frettolosamente.

Sempre suggestive ed efficacissime, in perfetta linea con l'idea del regista, le scene di Tiziano Santi e i costumi di Silvia Aymonino, anche se si sarebbe preferita una qualche maggior connotazione della maestà nei protagonisti regali.
Caravaggiesche le luci, soprattutto quelle di taglio, di Alessandro Verazzi riprese da Gianni Paolo Mirenda.

Sul fronte musicale Renato Palumbo, come suo consueto nelle opere verdiane, porta i pregi e i difetti del suo modo di fare musica.
Non v'è dubbio che sia preciso, conoscitore dello spartito, attento ai segni e agli accenti, vigile direttore di ogni strumento in un tripudio di morbidezza musicale per la gioia dei professori d'orchestra.
Ma troppo spesso si lascia prendere dalla melodia, rallentando i tempi a dismisura – per poi riprendere buona mano nelle marce e nelle cabalette, quasi rasentando la disomogeneità complessiva – fino a mettere in difficoltà gli interpreti che sono spesso costretti a tenere fiati lunghissimi. Ciò lo si nota soprattutto in “Tremin gl'insani” e poi ancora in “S'appressan gl'istanti” e anche all'inizio di “Va', pensiero”.

Non va meglio sul fronte vocale.

Dalibor Jenis è un protagonista sufficiente, ma nulla di più. La voce avrebbe anche un bel timbro, ma è troppo poco brillante per poter nascondere i difetti di pronuncia. È da notarsi una certa ricerca di fraseggio nei cantabili, ma la prestazione, nel suo complesso, può essere al massimo considerata provinciale.

Anna Markarova è una Abigaille che non lavora certamente di cesello. L'ennesima importazione di una “eccellenza” in un'Italia ingiustamente esterofila. È dura e ruvida, per nulla omogenea, povera d'accento e scompare totalmente nell'emissione delle note gravi. Risulta migliore nelle cabalette piuttosto che nei cantabili, ma nulla di più.

Raymond Aceto è un potenziale buon Zaccaria. La preghiera è ben eseguita, anche con una certa ricerca di colori e di fraseggio. Le note ci sono tutte, anche se le più gravi sono emesse con qualche compromesso, comunque accettabile, ma manca di raffinatezza nelle parti più musicali e di autorevolezza nei passaggi più drammatici. Sembra però possedere le giuste caratteristiche per un miglioramento nell'interpretazione di questo difficile personaggio.

Rossana Rinaldi si distingue, tra gli altri, per il buon uso della parola e degli accenti e il bel timbro della sua voce fa il resto. Purtroppo non è sempre ben omogenea e spinge troppo nella cadenza “fugge l'alma e vola al ciel”.

Luciano Ganci veste i panni di Ismaele. Come già detto in altre occasioni possiede una bella voce, ma l'intonazione è sempre troppo precaria e non riesce a passare il coro in “Per amor del Dio vivente”.

Buona la resa di Valeria Sepe nel ruolo di Anna. Meno positivi Enrico Cossutta e Dario Russo nei rispettivi personaggi di Abdallo e del Gran Sacerdote di Belo.

Tiepidi applausi per tutti al termine dello spettacolo, con un teatro che avrebbe dovuto registrare il tutto esaurito, ma che resta sempre con numerosi posti vuoti.
 
 
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